giovedì, maggio 10, 2012

Concerto per voce ed ego


Mi trovavo ad un happening (così nessuno sa cosa sia esattamente e io posso raccontare in libertà), immersa in una penombra, (abbastanza) comodamente seduta, a poca distanza dal piccolo palco dove tutto accadeva, eppure in ultima fila, posizione “di rigore” per sentirsi rilassati.
Lo dice pure il Feng Shui, la posizione migliore è con le spalle “coperte”, ma lo dico anche io che, sempre sopra la media in quanto a stazza, vivo nel timore non tanto di oscurare altri, quanto di sentire i borbottii di disappunto al mio arrivo, manco lo facessi per fare dispetto, di essere più alta di molti.
Colpa della penombra, davvero densa, che dilagava in sala, mal contrastata della fioca luce sul palco, complice il relax di fine pomeriggio, il pensiero si è presto astratto.
E io distratta, appunto.
Le parole che fluivano cercavano di costringere la parte razionale di me a seguirne il senso, ad apprezzare arguzie del pensiero e gli arabeschi ricercati del protagonista e della sua dotta interlocutrice, che ingaggiavano in una “singolar tenzone” presumibilmente volta a dimostrare chi fosse più contortamente intellettuale dell’altro.
Ma il mio assecondare i sensi, mettendo il secondo piano il pensiero, vinse.
Ancora una volta.
Questo è un gran complimento che faccio alla serata, non si creda che voglia dire che ero poco attenta perché non interessata. Al contrario, l’effetto è stato lo stesso di quando ascolto musica dal vivo: la mente si alleggerisce, aleggia, l’udito diventa solo il primo tramite per passare ad un sentire diverso, che alla fine non si serve più dell’udito. Per questo la musica va ascoltata dal vivo, per farsi inondare delle vibrazioni, anche fisiche, del suono.

Comunque, ero lì – un po’ sì e un po’ no – le voci erano suono, non parola. I discorsi erano compiaciuti pezzi di bravura, prova dell’intricata concettualità di cose che potrebbero essere semplicissime, oppure normali e quindi non da sovrastimare come distillato di genio. Esempio: una fobia è una specie di malattia, a ben vedere, non necessariamente cifra di genio che fa sì che il comportamento fobico diventi addirittura oggetto di letteratura, e pure interessante per altri. Però devo riconoscere che vivere nel mito di sé paga, perché si convincono anche gli altri di questa superiorità assoluta.
Le voci erano molto gradevoli: un duetto di contralto e tenore che passava attraverso gamme espressive varie e variopinte. C’era anche un commento musicale, fintamente occasionale come sanno fare i bravi improvvisatori. Ma spiccava l’atteggiamento di posa del musicista, quello che punta a rendere straordinarie cose che comunemente sono considerate abbastanza di poco conto. Mistificazione, si direbbe. Come un cuoco che si mostrasse sudato e vinto dalla fatica psicologica per aver fatto un uovo sodo.
Insomma, un insieme di sensazioni e di pensieri di stampo cittadino, in una città pretenziosa, che cammina col naso all’insù per fare la gran signora, sperando che non ne passi una di vera (di gran signora) a sottolineare il contrasto.
Me ne sono andata presto, anche io con il naso all’insù.

Il giorno prima ero stata ad un reading, una cosa che nella sostanza potrebbe essere analoga, ma di tutt’altro sapore. A cominciare da quello dell’ottima sopressa che suggellò la fine dell’incontro.
Lettura di Meneghello (Piccoli Maestri e altri saggi) a casa di Giuriolo.
Un posto meraviglioso anche per i profani: in campagna, casa antica in mezzo alle vigne, in un giorno di maggio con le rose sfacciatamente sbocciate, tutte insieme, e un cielo grigio, di quello che “ti pare di toccarlo con un dito” e che forse a breve ci cascherà sulla testa. “Un tempo inglese”, ci dicevamo. A causa dell’improvviso acquazzone, tutti rifugiati in un capanno annesso alla casa, che un tempo fungeva da cantina, ora deposito attrezzi più o meno in disuso.
Ambiente ammaliante del fascino di un tempo che fu, dove ci siamo trovati a fare filò, nel vero senso del termine. Cinque o sei i lettori, di fronte ad un ammasso di persone, non giovani in generale, arrangiati in qualche modo su panche improvvisate, riempiendo ogni angolo, alla faccia delle norme di sicurezza. Ne guadagnava la poesia del contesto, il messaggio già potente pareva entrare nelle ossa, assieme all’umidità.
Ecco, i lettori, le voci che si prestavano ad amplificare le parole scritte, erano lì per il gusto della lettura, per condividere il testo, per aggiungere l’inflessione del parlato e l’enfasi delle bestemmie – quando serve.
Non divi ma piuttosto asserviti all’autore, e ancor più al suo messaggio, convinti di farne dono agli ascoltatori. Questo mi viene da pensare, senza sentire alcun obbligo di verificare la verità. Che ci fosse compiacimento? Può essere. Ma non mi fa nessuna differenza. Magari anche nell’appassionato lettore era l’ego a prevalere, non so perché ma soprattutto non lo voglio indagare.
Mi sono staccata a fatica da quei luoghi, con il rammarico per le mie scarpette “da città” che non andavano bene per il prato.

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