venerdì, luglio 16, 2010

Alba con Brunello

Ore 4.45. Un caldo ininterrotto, denso, nemmeno mitigato dalle ore della notte, mi spinge giù dal letto dopo poche ore di sonno disturbato. Poco male, la mattina è bellissima, quasi fresca, direi. Stavolta è stato proprio il caldo, e non la luce che entra dai lucernari spalancati, a svegliarmi. E poi c’è un silenzio meraviglioso, anzi non è proprio silenzio, ci sono gli uccellini superattivi, protagonisti indaffarati di queste ore che il più delle volte, il più della gente si perde. In inverno è desolante, a quest’ora è buio, freddo, si fatica a mettersi in moto. In estate, il contrario. E infatti mi attivo subito: acqua ai fiori (la vicina del piano di sotto, che ha orari imprevedibili, a quest’ora di certo non sbucherà da sotto i miei vasi, facendo una polemica per ogni goccia che malauguratamente potrebbe cadere annaffiando).

C’è luce piena, ma il sole non è ancora sbucato dalle case. Dopo i fiori, un caffè, più per il piacere che dà il diffondersi del suo profumo per la casa, nel silenzio, che per il bisogno di una carica ad inizio giornata. Questa è iniziata piano piano, dolcemente, indolore. Liscia. Mentre aspetto il caffè, decido per un momento di vero ozio. Mi sento in vacanza. Perché si deve andare in un hotel chissadove per prendere il caffè stando sdraiati sul divano, e rimandando ogni altra cosa? Lo faccio ora, subito.

E sul divano giace abbandonata una rivista. Ho già visto i titoli, mi prefiggo di studiarne le pubblicità, gli argomenti. Qualcuno direbbe che sto quasi (quasi!) lavorando. Mi colpisce la presenza di un’intervista, che non ricordavo fosse lì. Ho rimandato il momento di leggerla perché prima si sfoglia, la rivista, per vederla nel complesso, e solo dopo si torna a scegliere qualcosa che richieda un po’ di attenzione. Ora tocca a lei.

Intervista a Mario Brunello. Un po’ inflazionato, di questi tempi. Però interessante, forse perchè strano, come personaggio. Me lo immagino schivo, introverso, da bravo montanaro (ovvero amante della montagna). Parlerà più attraverso il violoncello che a parole? Non lo so, sono illazioni. Il titolo parla di silenzio, e di Suite per violoncello. Non si deve nemmeno dire che sono le Suite di Bach. Non è scritto da nessuna parte. Forse nella terza pagina, tra una domanda e una risposta. Mmmm, le suite per violoncello. So già che le amo, un suono che ti gira tutto attorno e che ti entra dentro, dalla pelle. Al violoncello riesco persino a perdonare di essere legato ad un momento che è stato magico e che ora detesto. Quel timbro è più forte di ogni sgradevole connessione razionale. Che sollievo!

Dunque l’intervista passa un po’ di palo in frasca, tocca argomenti che potrebbero sembrare leziosità, manie da addetti ai lavori, quelli noiosi che si perdono per ore a parlare dell’accordatura, del significato di una tonalità, del vibrato sì-vibrato no, e cose così. Cose che noi profani bolliamo come manie assurde, onanismi del tecnico innamorato di uno strumento che, come dice la parola, dovrebbe servire a qualcosa, non essere il fine ultimo dell’attenzione di una persona. Invece, complice un intervistatore capace e decisamente intelligente (e che scrive proprio bene!), si toccano anche questi argomenti, come dettagli che da una parte assumono un significato, dall’altra non catalizzano tutta l’attenzione. Anche il particolare tecnico diventa un modo per trasmettere un po’ di sé attraverso l’esecuzione musicale che, per questo interprete più che per altri, è sempre un condividere qualcosa con chi ascolta. Quando vuole stare solo, con il suo violoncello, lo fa, in un dialogo a tre, con il compositore. Diversamente, si mischia al pubblico, ora suonando in alta montagna, ora nel capannone senza neanche un palco al centro.

A me dà questa impressione. Questa aspettativa, perché non l’ho ancora sentito suonare. Per pigrizia, fatalmente non ho voluto rincorrere il personaggio, l’evento. Fino a che mi sono imbattuta nell’intervista, stamattina prima dell’alba. Un “pezzo” che poteva sembrare noioso, celebrativo (4 pagine, un trattamento da vero divo), vezzoso nella ricerca dell’estremo: intervistare un musicista che parla di silenzi, sembra proprio una posa. E invece no. Forse perché è tutto molto autentico, o solo sembra tale, bravura di chi scrive? Non credo. Preferisco rimanere nella sensazione di autenticità che mi lascia, assieme al retrogusto del caffè, la fine di questa intervista.

E intanto il sole è sbucato proprio dalla finestra che ho di fronte, mi colpisce gli occhi e mi costringe a cambiare sedia, per continuare a scrivere. Un’alba con Brunello, a casa mia. Certo, quelle sulle Dolomiti devono essere tutt’altra cosa, ma questa è stata tutta mia. I rumori della strada sono aumentati, assieme ai gradi della temperatura. Anche a me oggi aspettano delle interviste, decisamente prosaiche, però. Va bene così. Andiamo a incominciare!

martedì, luglio 06, 2010

Radical-chic

Contro mia voglia, sono finita per essere una single radical chic. La definizione non è arrivata tutto d’un colpo, ma attaccando i vari termini, uno alla volta, a quello che nella realtà virtuale (e nelle indagini di mercato) si chiamerebbe il mio “profilo”. Termine buono anche per i criminali, a dire il vero, ma per stavolta soprassediamo.
Dunque single. Grazie a dio ci siamo evoluti e ormai “zitella” è un termine antico, usato solo a Venezia, somiglia a “pulzella”. Se penso che la legge ecclesiastica dice che la perpetua, per essere donna fuori dalle tentazioni, deve avere 40 anni… ma siamo proprio sicuri che i “reverendi” abbiano mai, anche solo per un attimo, restare lontani dalle tentazioni? A me non la racconta più nessuno. Che vengano stigmatizzate, le signorine tentazioni, neanche un dubbio. Così sono pure gratis, alla fine dei conti. E se qualcuna presenta il conto… orrore, la corruttrice! Ecco, il mondo non si è evoluto neanche di un millimetro, con buona pace di karma e company. Siamo ancora all’età della pietra.

Ma non era questo l’argomento del post.
Veniamo a radical-chic. Radical indica un certo coraggio, un’ostinazione, in qualche modo, una tendenza all’estremo, al totale. Potrebbe anche avere una connotazione positiva. “Chic” è un destino, che dire! Che colpa ne ho, se mi disegnano così? Gliel’hanno dato un premio a quello che ha cucito addosso a Jessica Rabbit questo mito di frase? Spero proprio di sì, diversamente sarebbe un’altra ingiustizia cosmica.

Dunque, contro mia voglia mi affaccio al mondo targata “radical chic” e pure “single”, se a qualcuno importa.
E cosa fa una single radical chic? Il pane.
Il pane in casa, con le mani, senza la macchinetta che neanche vedi cosa ci butti dentro, e poi, voilà! Esce il cubetto di pane perfetto.
No, il mio pane ha richiesto un anno di tirocinio, la ricerca di un maestro che, come dicono alcuni illuminati, arriva da solo a te, quando ti pare di non stare cercando nulla. Il mio maestro di pane, che credo sia inconsapevole di esserlo, è un giovinotto nerboruto e alto due metri, che fa sport estremi e parla prevalentemente in un dialetto stretto stretto che non si capisce troppo bene.
Mani grandi e grande cuore. Mi ha spiegato quei dettagli essenziali per fare il pane in un modo così semplice che a me è sembrato poetico.

L’acqua deve essere “bella”. Non fredda, e neanche tiepida, ma piacevolmente calda (e quindi in rapporto anche alla temperatura dell’aria. In inverno si preferisce un’acqua più calda che in estate): bella, insomma. Se piace a te che fai il pane, piacerà anche a lui (il pane).
Poi si deve lavorare con le mani, con generosità, “perdendosi via”. Ed è vero, impastare è un po’ un mantra, un movimento ripetitivo che ti porta a non pensare, ad astrarti nella piacevolezza tattile dell’accarezzare la pasta morbida. E come una carezza, piace a chi la fa e a chi la riceve. La pasta incorpora aria e ti ringrazia lievitando meravigliosamente.

Dunque ormai ho “le mani in pasta”, fuor di metafora, e mieto successi su successi con i miei pani. Ma che c’entra con la radical-chic? C’entra e come! Perché una sera, invitata da un’amica ad una serata “decisamente radical-chic”, come mi avvisava l’amica per evitare che potessi sentirmi un pesce fuor d’acqua (mica tutti sanno che io pure sono della stessa razza… o forse non lo sono proprio). Non avendo di che omaggiare il banchetto estivo che si sarebbe allestito, ho pensato di partecipare con il pane fatto la sera prima. E per farmi perdonare, ho aggiunto anche una bottiglia di rosso.
Sottovalutando la mia pensata, mica ho fatto l’ingresso trionfale con il prezioso bene. No, il mio pane è entrato di soppiatto, in forma anonima, io intimorita da uno sfoggio di pane in cassetta e grissini accanto agli affettati.
Allora, come un bombarolo, mi sono messa in un cantuccio a spiare, non vista, l’effetto che sortiva l’arrivo del pane “rustego”. Ah aha, i “veri” radical-chic, che hanno sane radici contadine, si leccavano i baffi, accaparrandosi i pochi pezzi disponibili. Passando da dietro, con indifferenza, ho persino sentito qualcuno, sfoggiando una sapienza infinita da vero intenditore, affermare con certezza matematica: questo è fatto con il forno a legna!

Spiacente, viene dal mio proletarissimo fornetto elettrico della cucina Ikea, ma è fatto con le mani e con gli insegnamenti del cuore (del mio maestro).