venerdì, dicembre 30, 2011

Indagine 40814

Il primo romanzo di Luca Valente è un giallo a sfondo storico, e non stupisce, visto il curriculum dell’autore (che prima di questo ha scritto numerosi saggi storici che riguardano la “sua “ Schio, e dintorni, teatro di ricche pagine di guerra e di resistenza).

È curioso conoscere l’autore di un libro, specie quando questo ti attrae fin dalle premesse, e quando, a lettura completata, ne sei completamente conquistata. In realtà la mia conoscenza con Luca, vecchia di almeno dieci anni, è molto superficiale e mi fa pensare a quanto, pur trentenne e laureata (due cose che a parole fanno di te una persona matura) avessi ancora la testa nel sacco. Lavoravamo per una stessa piccola società, con compiti che potevano essere complementari, eppure ci siamo raramente incrociati, più alla macchinetta del caffè che sul lavoro vero e proprio. Magie (storture) dei contratti a progetto, che rendono evanescenti i ruoli e inconsistente il senso di appartenenza ad un gruppo (l’azienda), e magie delle macchinette del caffè, specie se vicino all’uscita per i fumatori, che possono più di ogni seminario di team-building.

Insomma, complice il social network, come ben si conviene ai nostri giorni, vengo a sapere di questo libro, e la simpatia per l’autore mi spinge ad impegnarmi ad andare ad una sua presentazione. Per la quale, addirittura, sono riuscita a schiodarmi da casa la sera della prima del Don Giovanni alla Scala, in diretta (che ho poi recuperato l’indomani – niente paura!). Ma quella sarebbe stata l’ultima occasione per incrociare una presentazione di Indagine 40814.
L’entusiasmo del presentatore della serata, che aveva genuinamente apprezzato l’opera, e la modesta tranquillità di Luca (dissimulava l’emozione? oppure è ormai navigato in queste cose?) hanno reso la serata piacevolissima, interessante e pure divertente.


Andando alle cose serie, il romanzo porta in sé, come naturale, le varie sfaccettature del suo autore. Ma qui viene il bello, perché Luca Valente ha il merito, o la fortuna, di accentrare su di sé il mondo del giornalismo e quello della ricerca storica, per molti versi contrastanti (nei metodi, negli atteggiamenti), e la ricerca spirituale (fino all’esoterismo) che per passione ha approfondito nel tempo. Il tutto si condisce con una notevole vena introspettiva, che gli ha permesso di creare personaggi di grande forza narrativa, entrando nella psicologia di ciascuno con delicatezza e profondità sottile. Sono persone vere, non stereotipi (anche se funzionali al racconto) alle quali il lettore si affeziona in breve tempo, restando letteralmente incollato al libro, che finisce per divorare in poco più di quattro tranche (sacrificando volentieri anche appuntamenti e occasioni sociali, se serve, pur di scoprire come procede la storia).
Se Valente si ispira ai narratori di successo, alla Ken Follett, devo dire che il paragone tiene. E personalmente lo estendo anche a Steig Larsson, che con la sua trilogia di Millennium (ancora una volta avventure di giornalisti?) ha opzionato l’intero tempo libero della mia ultima vacanza estiva.

Indagine 40814 parte da una trama fitta e ricchissima, che porta la vicenda attraverso intrighi, colpi di scena, avventure al limite (i personaggi “normalissimi” in partenza si trovano ad affrontare minacce, rapimenti, fino ad una sorta di discesa agli inferi da cui “tornare a riveder le stelle” in modo modernamente rocambolesco, non scevro da suggestioni da film d’azione), in un crescendo di intensità e di ritmo degli avvenimenti, fino ad uno scioglimento dei misteri (necessario per accompagnare il lettore ad una serena conclusione) e addirittura ad un lieto fine, per nulla stucchevole perché, ancora una volta, vincolato ad un realismo psicologico dei personaggi davvero apprezzabile.

Analizzando il libro, ci si trova giocoforza a pensare ad una gerarchia dei personaggi. Ed ecco che i due protagonisti sono Elena ed Enea. A dire il vero sono tre, con Ettore, che insieme formano la terna degli “omerici”, dati i nomi. Coincidenza (e naturalmente tutto il libro è una dimostrazione della tesi che le coincidenze non esistono, ma hanno un senso che prima o poi arriva a manifestarsi) che ritorna spesso con altre citazioni nel libro, e di cui i protagonisti sono perfettamente consapevoli.
Il romanzo ha una forte componente storica, e per questo lega in modo non lineare, a creare una trama intricata e consistente, ben quattro epoche, distanti tra loro e con fatti apparentemente isolati, per scoprire invece tutte le connessioni tra antico e moderno: si tratta di una spedizione di monaci germanici qualche anno prima del Mille, dei mesi terminali della Seconda Guerra, degli anni del liceo dei protagonisti (che per avventura sono miei coetanei – come pure dell’autore) e del presente, tempo in cui si svolge la vicenda iniziale, e principale, che funge da risoluzione delle tre precedenti.

Il passato che ritorna, con insistenza.
Piacciono da subito i personaggi, ben delineati nel carattere, nella psicologia e nei sentimenti. Quasi stupisce la capacità descrittiva, in particolare, dell’universo femminile, ben compreso nelle sue complessità e rappresentato con grande attenzione alle sfumature. Le donne sono quasi meglio definite degli uomini, forse perché sono personaggi più sfaccettati e meno prevedibili, forse perché l’autore sente la sfida di creare qualcosa così diverso da sé (è difficile non cedere alla tentazione di immaginare un legame tra Valente ed Enea, che peraltro non viene descritto nei dettagli, anche fisici, a differenza di Elena e delle altre figure femminili del romanzo).

Tra i fili rossi del romanzo, una tensione emotiva tra i due, fortunosamente single, sin dal loro primo incontro. Anzi, ri-incontro, dopo un presunto flirt giovanile. Complici le situazioni eccezionali che li uniscono, e li costringono anche ad una convivenza (come nella più romantica fantasia, molto femminile), Elena ed Enea scoprono un sentimento reciproco, fatto di attrazione fisica e mentale.
Non si contano le occasioni sprecate, mancate da Enea che tarda a prendere l’iniziativa esplicitando quello che entrambi desiderano, raggelando diversi slanci di Elena che arriva alla consapevolezza dei propri sentimenti attraverso la gelosia.

Non dimentichiamo che si tratta di un’indagine, di un giallo (con sfumature di noir, qua e là). L’intrigo che si palesa sin dall’inizio del libro va complicandosi man mano che gli investigatori vi si addentrano, in un crescendo di tensione e di colpi di scena. Il mistero da risolvere è molteplice, e appartiene anche alle epoche lontane. Il lettore viene accompagnato verso la profondità (del passato, di fatti oscuri di cui si è quasi persa la memoria), rendendo familiari gli avvenimenti e appassionandolo ad ogni vicenda, fino a quelle dei personaggi “minori”, che tali non sono mai.
La forma di diario, con capitoli brevi scanditi dall’indicazione di luogo e data, favorisce l’orientamento del lettore nel continuo passaggio da un’epoca all’altra, e consente di non perdere mai il filo del discorso.
A completare il quadro di fluidità tra le epoche, una commistione tra razionalità estrema e fede nei segni del soprannaturale, primi tra tutti i sogni, che vengono considerati con serietà come tracce della realtà che esiste, e li attende in qualche luogo, o tempo.

Se siete arrivati a leggere fino a qui, e se vi solletica l’idea di leggere “Indagine 40814”, posso ora anticipare che il colpevole è
Niente paura, lo scoprirete da soli! L’unico rammarico è che il piacere della lettura durerà poco, e resterà il desiderio di un prossimo romanzo di Luca Valente, alla scoperta di nuove avventure che le zone a noi tutti familiari, come Schio o il Tretto, celano in qualche segreta piega del passato, ancora non emersa alla luce.

Le donne giocano con i trucchi

Divertirsi” è la parola d’ordine, quando si tratta di truccarsi. Lo penso da sempre.
Il mio approccio con i cosmetici non riguarda propriamente il make-up.
Il ricordo più antico che ho (a parte il profumo del rossetto della mamma, che oggi non si sente più nei prodotti in vendita. Sarà stato cherosene, forse – erano gli anni ’70 – ma mi piaceva moltissimo) si riferisce ad un compito per “educazione artistica”.
Ero alle scuole medie.
Per il disegno su cartoncino ho usato due vecchi ombretti, verde e azzurro, che sfumavano benissimo! Quella sensazione tattile e olfattiva mi è rimasta, e con essa il piacere di avere a che fare con i cosmetici, di cui valuto la qualità in base alla texture nel momento in cui li tocco per truccarmi, prima ancora che per la resa finale.

Oggi, che son cresciuta e che mi occupo di immagine, non cambia il senso di gioco collegato al trucco.
E KIKO Make up pare saperlo bene.
Il “primo incontro” con questo brand è stato casuale, in un centro commerciale come altri. Mi attirano le luci, l’ordine e lo schieramento della tavolozza di smalti e ombretti. I prezzi bassi mi fanno pensare male, di primo acchito. Poi un’amica mi dice con entusiasmo che sono tutti prodotti italiani. La cosa non aggiunge un gran che alla mia valutazione. In Italia si fanno cose ottime e altre meno, come ovunque. 

Quello che mi conquista invece sono le commesse, chiamiamole così per praticità. Sono giovani (!) ma molto preparate. Hanno il look da make up artist, con il tascone con i pennelli legati alla cintola, come i muratori americani (qui si va avanti a immaginario collettivo), ma dietro questo sta una salda preparazione tecnica. Formazione aziendale? Spero di sì. 
Ottimo approccio al cliente, con simpatia. Danno del “tu” pure a me che potrei essere loro madre, ma non voglio pensarlo e quindi mi gratifica essere trattata alla pari. “Pèrdono” tempo a cercare il colore del fard che ti sta meglio, ti offrono anche un accenno di trucco (per un trucco completo basta prenotare), ti insegnano quale pennello usare. Non spingono forzatamente sulla novità o sul prodotto di punta, propongono al pari le cose in offerta speciale.
Usano loro stesse i prodotti (ti fanno vedere come si potrebbe ottenere risultati meravigliosi con le scatolette che hai lì a disposizione) e ti sanno dire in modo convincente che funzionano, a parte le creme contro la cellulite, dato che il problema non le sfiora neanche negli incubi.
Se recitano, lo fanno benissimo. 
In ogni caso, il “tono di voce” è lo stesso del profilo Fb, ovvero di quello tra pari che si scambiano idee su un prodotto, pur lasciando palese il fatto che loro stanno lì per vendere, non per farti bella e poi … bella ciao!

Entrare in quella che corrisponde alla casa di Barbie per una bambina di 5 anni è meraviglioso (specie quando i 5 anni sono ben distanti) ma richiede qualche attenzione.
Innanzitutto, non andarci con le persone sbagliate. Quelle che ti dicono che stai perdendo tempo. È tempo di svago, certo, non migliora le sorti del mondo ma non per questo deve essere bollato come colpevole.
Regola nr.2: niente fretta, il gioco assorbe l’attenzione e il tempo scorre via.
A meno che non si stia facendo un semplice rifornimento dei prodotti di sempre, e anche così teniamo presente che l’occhio cadrà su una sfumatura nuova, che ti verrà voglia di provare un look diverso, di rivedere i colori dei rossetti che l’altra volta hai lasciato là, e così via.
La compagnia ideale sono una/due amiche, egualmente interessate al gioco, fa lo stesso se sono esperte o neofite delle gioie del make-up.
Il risultato sarà di spirito più leggero (ti stai prendendo una mini-vacanza, tutta per te, in fin dei conti), di liberazione da cliché che ciascuno porta, come una croce (ma chi te l’ha detto che il rossetto rosso o il fard non fanno per te? Prova, e poi vedrai!), divertimento e relax.
Praticamente un toccasana per creatività e buonumore.
E vogliamo chiamarli ancora trucchi?

martedì, luglio 26, 2011

RAGIONE E SENTIMENTO E CALESSI D’OGNI SORTA

Ci sono tutti gli ingredienti: l’estate, tempo da ombrelloni e romanzetti rosa (di quelli che valgono forse meno della carta su cui sono stampati), voglia di far poco, cuore sbigottito e tenero (ottima fonte per banalità che potrebbero essere condivise da un target dai contorni sfuocati di lettrici).
È irresistibile la tentazione di mettere in fila i risultati di tutto questo, una vera fiera delle banalità che urge dentro di me, e trova uscita solo dal refill della biro, il pronto soccorso universale per borsetta che ultimamente non dimentico mai di portare con me.
Mancano dieci minuti al mio appuntamento di lavoro, sono dieci giorni che rimugino sensazioni, sentimenti, pensieri. Uno yo-yo tra razionalità di stampo settecentesco, tutto causa-effetto (però, a ben vedere, chi se ne frega delle cause, lasciatemi guardare gli effetti e amen, il resto si attacchi dove meglio crede), e dall’altra parte un tenero sentire, qualcosa di piccolo, delicato, impalpabile, umile eppure insistente, come un bambino che con la sua vocina ripete “portami a veder i cavalli” e non demorde, non si addomestica alle spiegazioni, che pure comprende. Ha ragione lui: le spiegazioni stanno su un altro piano, lui è di un altro mondo, fatto di desideri, di speranze e di un sentire che è certezza. 

Io che bambino non sono, e mi porto appresso strati e strati di incontri, letture, filosofie, colloqui, provo a scoprire le carte. Faccio il gioco del “se fossi” e penso al genio della lampada. Cosa gli chiederei, con la mia vocina insistente e magari un po’ piagnucolosa?
Ma prima voglio tirare fuori tutto, ed escono le solite cose: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona…”. Accidenti, suona come una condanna, un aut-aut. Se ti senti “perdonato” da Amor, vuol dire che … era un calesse! Pace. 
Riaffiorano le parole della curandera (sì, ho incontrato pure una curandera, che non so se cura, ma ispira di certo, come ogni persona “evoluta” anche solo per se stessa) che mette tutto sull’energia, quella che devi sentire dentro di te fluire con potenza e calma, e quella che ti assorbono gli altri, e non sempre a proposito. E decido che non devo fare proprio nulla, e al tempo stesso tutto. 
Sto lì seduta come la dea Kalì (che non so assolutamente cosa faccia lì seduta, ma ci sta) e divento un centro, di energia. Un po’ così mi sento, nonostante la parte razionale mostri di arrabattarsi, di combattere. Ecco, se sei veramente potente (come può esserlo chi lascia fluire l’amore dentro sé) non devi scapigliarti tanto, le cose verranno. Quelle che verranno saranno buone, o comunque serviranno a qualcosa, le altre saranno un nulla di perso, in fondo. Ora mi sento forte di questo. Che stranezza, dato il momento. Eppure …
Wow, quanta saggezza, non ci credo nemmeno io. È il refill che fa tutto, io non volevo.

E il calesse? Beh, il calesse serve a portarti da qualche parte. Anzi, diciamo che sei certa che si tratti di un calesse quando comprendi dove ti ha portato. Questa però è la fiera delle consolazioni! Tanto, che cambia? Nulla, nei fatti. Molto nella possibilità di crescere. E riscoprirsi, magari, migliori di prima. Falsa partenza, si ripeterà e farà trionfare il vincitore. Errore di percorso, sarà un insegnamento, o un banco di prova, o un errore e basta. Chi vivrà, vedrà. Approfitto del momento positivo ed energico per fare bella figura con la lettrice (queste sono robe da femmine), perché so che presto sarà seguito dai suoi molti contrari, e lo yo-yo continua, lasciando una scia di sonno al povero cuore strapazzato.
Caro genio, lo sai tu quel che voglio: è qualcosa di semplice e raro, bello e spaventoso, coraggioso fino all’incoscienza e deciso contro ogni ostinazione. È il posto cui si appartiene, e che si riconosce in un istante, all’improvviso, magari quando si sono dipanati pregiudizi e timori, i nuvoloni che nascondono un sole che sta sempre lì, per ciascuno di noi.

mercoledì, giugno 22, 2011

Reciprocità


Non ti offro la spalla su cui piangere. Non voglio essere consolata.
Non sto soffrendo. Ho sofferto in passato e ora sono una cosa diversa anche grazie a quel dolore.
Per questo non voglio essere il balsamo di nessuno.
Voglio incrociare il momento giusto di qualcuno, e vibrare alle sue vibrazioni, come le canne di una campana a vento.

Voglio tornare ad essere allegra, nel profondo, e spensierata come una ragazza.
E dopo, solo dopo, aprire gli occhi e vederti, se ci sei.
E sennò sorriderò agli angeli.
Non voglio sanare la rabbia, correggere le storture, colmare ammanchi di alcun genere.
Voglio essere la cosa giusta al momento giusto. E nessuno sa perché. Neanche noi.

E tutto il resto è più che dimenticato. Inoffensivo. Nessun sentimento, neanche negativo.
Tutto il resto è semplicemente fuori dalla vita di oggi e di domani.
Un film da guardare dall’ultima fila della sala, e se ci si stanca si esce a metà del secondo tempo, per fare di meglio.

lunedì, maggio 16, 2011

Lezione di amicizia


Attendevo con un po’ di ansia qualche fatto della vita che mi suscitasse un pensiero abbastanza profondo da essere motivo di uno scritto. Cercavo di guardare ogni cosa con occhio sardonico, sperando in uno spunto per un pezzo cattivissimo e divertente.
E invece è arrivata una lezione semplice, un po’ sentimentale. Non c’è ironia, non c’è spirito arguto né divertimento. A darla, la lezione, è un nonno.
All’età di oltre settant’anni sembra che tutti comincino a permettersi versioni di sé che forse prima non manifestavano, o semplicemente che io non ascoltavo (fa lo stesso). Insomma questo amico di famiglia, oggi davvero nonno, per me carissima presenza sin dalla mia infanzia, con il suo solito modo sommesso di chi dichiara di non aver studiato, e quindi di non poter insegnare niente a nessuno (sbagliatissimo, ma lo sa anche lui), se ne esce dicendo: “L’amicizia è un tesoro, una ricchezza che va conservata, alimentata, protetta, coltivata. A suon di sacrifici, se serve.” Tanto che lui ha spostato la festa per il proprio compleanno, da trascorrere con figli e nipoti, per essere presente alla festa dei settant’anni di un suo amico. Perché “Mica si poteva mancare a questo festeggiamento, così importante”, e per farlo val bene la pena di sacrificare una parte del privato, del personale.

Come dire, uno stacco generazionale con quanto vedo non nei giovani (che oggi hanno 20-25 anni), ma nei quarantenni. Come li vogliamo chiamare, uomini (e donne) nella piena maturità? Potrebbe andare.
Bene, questi li trovo sempre più rivolti ad un orticello privato che va via via riducendosi nelle dimensioni, e isolandosi dal resto del mondo, in un’estenuante tutela della proprietà privata da esercitare in materia di tempo, di condivisione, di servizio, di disponibilità. Tutto ciò che sta fuori dalla finestra di casa tua viene sempre e comunque “dopo”, e se ne avanza. E gli amici vengono sempre in seconda battuta.
Il festeggiato ha ringraziato con un altro bellissimo pensiero, un rovesciamento de “La vita è meravigliosa”, film del 1946 di Frank Capra, interpretato da James Stewart. Un classico che più classico non si può. Bene, come lì viene data la chance unica ad un disperato di vedere nel futuro come sarebbe stata la vita senza di lui (che meditava di dare un aiutino al destino, anzitempo), così oggi il festeggiato, che taglia il traguardo dei settant’anni, dichiara di sentirsi fortunato perché invece è arrivato a vedere come è stata realmente la propria vita, e di vederlo nelle persone che erano lì a festeggiare con lui.
Sì, ma non solo, quelle erano le persone che sono state con lui in tutti gli anni precedenti. Amici d’infanzia, e poi quelli dei vent’anni, sempre rimasti in clan dai tempi della cinquecento, amici di avventure vacanziere con la roulotte, di quelle spericolate che si facevano negli anni ’80 (che oggi se uno porta i figli in campeggio senza acqua calda si trova il telefono azzurro in casa). Tutti lì, come un tempo, e davvero felici. Tutti si sono andati incontro (volevo dire “sacrificati” ma non è giusto lo spirito) in diversi momenti della vita, dobbiamo immaginare, magari a spintoni (non è che li facciamo tutti santi subito). Però la loro barca ha tenuto. Oggi, forse più al riparo da molte tempeste, quella barca può permettersi una riverniciata, per l’occasione, ed essere ancora bella come sempre.

venerdì, aprile 29, 2011

I Nèeeri e la lista civica.


Si dice proprio Nèeeri, se si vuol rispettare la pronuncia corretta. Una bella “e” larga e appoggiata, che dura come tre. Proprio la si deve sentire che si appoggia sul fondo della bocca, stendendo bene la lingua da molare a molare. Quasi ti costringe ad un sorriso. Ci siete riusciti? Qui dalle mie parti è un’abilità innata, che si impara succhiando il latte (se di mamma oriunda).
Premessa divagatoria per introdurre un mio affaccio alla politica locale. Canticchiando “la libertà non è star sopra un albero… è partecipazione” mi avvio, auto-costringendomi, alla presentazione di una delle tre liste che si offrono all’imminente consultazione elettorale. Terna che mi mette in serio imbarazzo: una è dichiaratamente partitica, di un partito che non voterò. Anzi che non voterei nemmeno se fosse l’unica possibilità, proprio per una questione concettuale. Sì, anche alle amministrative di un paesotto, dove gli accorpamenti elettorali sembrano il comitato sagra (con tutte le lodi per quanto questi comitati riescono a fare, che se per ottenere i risultati voluti sono capaci si cambiare la direzione di una strada, se questa disturba la sede della pesca di beneficenza), c’è chi si pone un interrogativo ideologico. Tanto, da “radical chic” mi ci hanno già bollato, e me ne vanto pure un po’.
Quindi fuori una. Le altre due, come qui pare essere tradizione (venendo dalla città - e ora faccio anche la snob - le civiche sono il rifugio peccatorum, nani in confronto ai giganti delle liste di partito), sono liste civiche con nomi a dir poco artistici, che non mi ricordo. Una è quella in carica che, dietro la facciata di cartone di logo fantasioso e nome rassicurante, alla fine racchiude persone con una posizione politica che non mi appartiene. A parte questo, hanno fatto scelte poco condivisibili, quindi non li voterei.
Bene, abbiamo scelto? Neanche per idea. La terza, e ultima, possibilità è forse peggio. Non mi rappresenta neanche un po’, a vedere ciò (e come) comunicano. Per la prima volta in vita mia vado ad informarmi: loro sito internet (ben fatto, diciamola tutta, ma quel che ci trovo non mi appassiona), chiedo negli “ambienti politici” cui posso accedere per vie traverse. Pare siano loro, quelli più in linea… ma con cosa? Non mi convincono, e stavolta esigo di essere convinta. Quindi, si va alla presentazione “live” della lista.
Brava! Grande partecipazione!
Mi faccio forza, e vado. Li ascolto. Cerco, con tutte le forze, di non mettere i freni dei pregiudizi che già mi sono fatta. Prendo pure appunti. Ok, sono un po’ meglio di come parevano. Alcuni sono competenti, e pure “simpatici”, forse mi ispirano fiducia (dal punto di vista amministrativo). Allora vuol dire che è in tema di comunicazione, eh eh eh… che facciamo acqua (breve momento di godimento di chi di comunicazione si occupa, e di chi ha senso critico da vendere).
Alcune cose della loro esposizione non mi convincono, e alla fine di tutto gliele sottolineo chiedendo se per caso non ho capito male. Come minimo miopia, la visione dell’azione politica/civile non esce dal territorio comunale. Persino un nuovo insediamento commerciale riceve critiche non perché è orrendo, cementificante, inutile, ma perché non crea posti di lavoro “per i locali”. Insomma, lo schifo è perché i commessi non sono nati e cresciuti in paese. Mi permetto di dire che siamo in Europa, i cittadini possono muoversi dove vogliono, pure dentro e fuori dal loro comune di residenza (e intanto mi cadono le braccia!).
Alla mia obiezione si scusano tutti “che hanno parlato male”, che loro sono aperti, ci mancherebbe. L’impianto è esageratamente vetero-catto-nonsoché: insomma, la società è fatta di giovani coppie sposate (ovviamente in chiesa, con benedizione papale) con figli. L’apice lo tocca il candidato che parla di famiglia: mattone di cui è fatto il muro (o la casa) della società. Eccoci. Già il lessico mi fa accapponare la pelle. Prendo la parola e dico che, per continuare la metafora, io sono una pietra di scarto, di quella società, non essendo né sposata né madre. Il tipo secondo me si è offeso, e non mi ha neanche avvicinato, dopo il comizio.
Invece difende la posizione un’illuminata (che si è presentata dicendo persino i nomi dei tre figli), una che decide di impegnarsi in politica “per i suoi figli”. Ma dico, si parla di “cosa pubblica”, la politica non si occupa di tutti, persino di quelli che non ti hanno votato, dei figli di chi manco conosci? Aiuto, quanto siamo indietro! Dunque, la difesa della posizione “classicistica” (che mi fa pensare a Giovanardi e l’Ikea: questi sono d’accordo con il Ministro!) suona così: “ma no, noi non rappresentiamo solo gli sposati. In lista abbiamo anche Tizia e Caio, che sono senza famiglia!”.
SENZA FAMIGLIA? Dei trovatelli? Signorepietà! Non usano la parola “cittadino” mai, termine che va oltre stato civile e pure legale della persona. Un altro, davvero improponibile, mi rassicura che “comunque” (cosa vuol dire, “nonostante io sia un avanzo di società”?) il mio voto andrebbe bene lo stesso. Ottimo, vado bene per il riciclo! Ora sì che mi sento rappresentata.

Dopo la presentazione/comizio/caporetto viene la parte bella: birra e torte deliziose, fatte in casa. Momento per parlarsi a tu per tu. Ho attirato una certa attenzione. Mi si avvicina quella che difende una precedenza dei locali per le attività economiche (ma ho sbagliato io ad interpretare) e per tagliare l’aria le chiedo di solito come viene usata la sala comunale che ci ospita. E lei risponde: “Il sabato si balla il liscio, la domenica fanno le celebrazioni dei Nèeeeri”.
I beg your pardon? Come si esprime un candidato assessore? Dicendo che dei cittadini immigrati (magari 15 anni fa) sono dei Nèeeri? E basta? Solo quello? Che siano neri penso sia evidente (quasi quasi domenica faccio un salto là, chissà che non mi mandino via perché non sono abbastanza nèeera) ma santodio manco le suore missionarie di 50 anni fa avevano ‘sto atteggiamento paternalistico-razzista. Altro che apertura, ho paura che i miei sospetti fossero fondati. Qui ti fanno l’esame del sangue e se ci trovano tracce di extra-comunalità son dolori!
Restando in tema di colori, diciamo che qui ho voluto spingere le tinte del racconto, perché una frecciata questi qui se la meritano tutta, e comunque sono pensieri che ho sinceramente fatto. Diciamo che nella squadra avranno dovuto ficcarci dentro qualcuno che magari, se restava a casa a far le torte per il “suoi” bambini (metafora: c’era pure qualche uomo, che le torte non le fa, che era poco presentabile) era anche meglio, ma politica è anche compromesso, no?
Condivido una parte delle proposte, una parte della visione e degli atteggiamenti (due o tre di loro mi piacciono pure). Darò una parte di voto? Vedremo!

venerdì, marzo 11, 2011

La borsa Luis Vuitton


Ho sempre avuto un pregiudizio sulle le griffe. Specie quando sono solo un marchio, e la cosa su cui stanno appiccicate non mi convince. Per convincermi, un accessorio moda, o anche un abito, deve dirmi qualcosa “da solo”, mi piace perché mi piace, non perché “va”. La vipera del Diavolo veste Prada avrebbe il suo bell’insegnamento in merito, ma io sono talmente radical chic da fregarmente pure di lei e della sua dottrina della passerella.
Che non fossi un animale da star-system, lo sapevamo già, e questa ne è la prova del nove.
Non riconosco un originale da un tarocco (sarà perché a volte i pezzi taroccati sono identici, in tutto e per tutto, compresi materiali e manodopera, e hanno solo preso un tir che ha a sua volta preso una strada diversa ... ad un certo punto del tragitto?) e non lo sento come un problema. Non inorridisco al vedere il dettaglio della borsa, un gancio, una cucitura, palesemente diverso da quello nelle vetrine in via Monte Napoleone. E me ne vanto.
E quando capita che il cinquantenne supergriffato, business man “dei poveri” si rivela più tarocco dei miei tarocchi, allora è festa grande, con fanfara e tutto il resto.
È la rivincita intima su certi trattamenti cui il destino ti espone, e che se sei furbo riesci a guardare con apollineo distacco. E stavolta, sono stata apollinea il giusto.

Succede dunque, ovvero accadde mille anni fa, in un paese tanto lontano, che il suddetto griffato, potenziale ipotetico cliente, ti chiama, reclamando un appuntamento praticamente dal venerdì sera a lunedì mattina. Il libero professionista (non il figo con ufficio nella villa palladiana, ndr) che fa? Svuota l’agenda all’istante, se è donna e magari aveva da andare in palestra non tanto per combattere il tempo e la forza di gravità, ma anche solo per dare un aiutino alle ossa, che la dovranno sostenere per poter lavorare ogni giorno che il signore manda in terra, bene anche la palestra viene cancellata: di fronte ad un potenziale cliente si fa così, se no poi è colpa tua se non hai giro. Dunque, il griffato fa di sicuro il conto: questa ha una borsa in similpelle, scarpe anonime, niente pendagli al polso o brillantoni al dito. Costo minimo, dunque. Tariffario fissato.

Il colloquio dura un’oretta (che nessuno paga al professionista. D’ora in poi, lo chiameremo anche sprovveduto). L’incontro ha due livelli: la conoscenza del “progetto” del cliente, che somiglia più che altro un riciclaggio di se stesso, e un livello sornione, che sta sotto; non si vede ma di quando in quando si fa sentire. La parte “sottile” del consulente, quella epidermica, stregonesca o da Lilith che dir si voglia, fa increspare la pelle come un venticello fresco appena usciti dall’acqua. Ebbene sì, questo personaggio ha qualcosa di sfuggente, fa schizzare il pensiero al protagonista de “La morte a Venezia”, con il suo belletto osceno. Il belletto, stavolta, è l’attrezzatura griffata.
Ma qui si cerca di lavorare, non facciamoci prendere da ‘ste raffinatezze letterarie che, come è noto, non danno da mangiare a nessuno. Il mondo è di chi lo sa vendere! Giusto?
Giusto sì, mi tocca dire … 

Insomma, messe da parte le titubanze, si procede alla proposta. Si scelgono i partner, si fanno i preventivi e si manda la proposta.
Risposta … ah no, stavolta la risposta non arriva. Ma come, non aveva una fretta malsana di avere l’immagine per la sua creatura cui aveva già dato un nome (scelto da lui, senza accorgersi che ha battezzato una società di consulenza con una parola che richiama un preservativo, o al massimo un disco volante. D’altra parte creare un nome è una cosa da niente. Chiunque lo può fare, no?)? Passato il ragionevole tempo di un imprevisto, il professionista capisce l’antifona: questo è una patacca. Non ha neanche i soldi che equivalgono ad una sola delle sue scarpe, da destinare al suo lavoro. Nonostante questo, per quella voglia di mettere i puntini sulle i che quando non si ha più nulla da perdere diventa una frenesia incontrollabile, il professionista (sprovveduto e ora anche assetato di sangue, virtualmente) procede con la classica tirata di orecchie al fedifrago, pezzo di bravura del deluso che si ascrive al diritto di cantarle sul muso a chi lo tratta male e, in questo senso, più inutile di qualsiasi accessorio, griffato o non. 

All’inevitabile risposta, commercialmente bieca, del “il prezzo è troppo alto, abbiamo già fatto diversamente” si risponde con la stessa lingua: il silenzio eloquente. E non mi si dica che la borsa griffata non serve, il più delle volte, a coprire il nulla che sta sotto. Lo stile vero, intrinseco, trova una rappresentazione di sé nell’apparire, non il contrario. Ma se così fosse, le case di griffe non farebbero i numeri che fanno. E buon per loro.