martedì, settembre 04, 2012

DUE SU DUE?


DUE SU DUE? Bionde contro more (tanto per cambiare)

Non me ne vogliano le bionde, ma anche sì, dato che giochiamo in squadre avversarie per forza di cose: due su due son troppe, se ti capitano lo stesso giorno.
Lido, Festival del Cinema. Un’indigestione di film, se non si sta attenti, e l’irresistibile tentazione di collegarne temi, motivi e chissà che altro.
Il bello del festival è (anche) che puoi vedere gli attori dal vivo, tastare di persona l’impatto che hanno come persone viste a tu per tu, e verificarne la concretezza. Così mi è capitato, anni fa, di scambiare quattro parole con una gentilissima, molto “easy”  e altrettanto trasparente Claudia Pandolfi. Alta quanto me, larga la metà, mi ha di certo colpita e fatta sentire vergognosamente in colpa per ogni merenda spuntino e aperitivo degli ultimi 30 anni (lacrime di coccodrillo, manco a dirlo). Ora quando la vedo in un film e tutti dicono “sembra magra, sarà la proporzione della tv”, io so che non è così. Che è magrissima e punto.
Quest’anno sono stata  in conferenza stampa di alcuni film. Lì gli attori vanno per contratto, e devono pure dire la loro, con alterne fortune (perché non leggono prima le dichiarazioni che i loro uffici stampa preparano per loro, e che tutti noi poi leggiamo nei giornali?).
Ora, in due film, visti a ruota, l’attrice è una biondissima, sofisticata attrice. Per par condicio, una era americana e una italiana, ma sempre super bionde, platino o quasi. Nei film, capello cortino e bruno.
Per il film americano, dalla sala arriva la domanda, per la regista: come mai ha scelto di avere l’attrice in versione bruna? (dico io: perché non hai preso direttamente una bruna, già che c’eri?). Risposta: per rendere più vero il personaggio.
La ragazza americana, figlia di buona famiglia upper class, se la fai pure bionda non ci crede nessuno che abbia una vita vera, dei problemi, dei sospesi e così via. Resta “personaggio” e mai “persona”.
Lo stesso accade in un italianissimo film. La bionda attrice (che al festival era sperticatamente bionda, direi, proprio senza mezzi termini) è una brava, niente da dire. Ma nel film viene “smorzata” in bruna con capello corto, proprio per portarla nella vita reale e nella tragedia domestica che interpreta dove, da biondo Marylin farebbe fatica a stare. Tanto che mia mamma, dopo averla vista in sala, da distante, pensava che nel film interpretasse una parte marginale (l’amante, tanto per non destar sospetti di stereotipo) e non la moglie tradita e affranta.
Quando giuro a mia mamma che quella moretta del film è la stessa biondazza in sala, il suo commento è lapidario: « E serve una sventola così per rendere una donna normale?» Il che mi fa riflettere anche del contrario. La donna ha quella faccia lì, che vedi sullo schermo, solo che poi fa la biondazza.

lunedì, luglio 16, 2012

Storia e magia della maschera


Non sapevo cosa aspettarmi dalla serata, che mi era stata proposta come un “evento unico al mondo, con un’attrice strepitosa”. In mancanza di ulteriori dettagli, la mia fonte mi dice “devi proprio venire, perché ti piacerà un sacco”.
Ora, o io sono un’incosciente, che mi butto in avventure di cui non so neanche il titolo, o la mia fonte ne sa davvero una più del diavolo, o l’apertura e la disponibilità a farsi toccare anche da cose che normalmente non ci appartengono stavolta è stata premiata. Alla grande.

Il titolo ce l’aveva, lo spettacolo, ma nemmeno quello descriveva appieno ciò che ci attendeva nel cortile del palazzo del centro. Titolo suggestivo - “Bacco e Apollo al museo” – per la verità, ma non troppo evidenziato tra le informazioni del volantino. Sottotitolo esaustivo, che però poteva scoraggiare: Opera dimostrativa sulle tecniche di Commedia dell’Arte… ecc.
Una lezione – spettacolo, leggo bene solo all’arrivo sul luogo dell’appuntamento. Ma restava forte la curiosità instillata da quel “ti piacerà moltissimo”. La mia fonte era testata, che già altre volte mi aveva proposto cose sui generis, che poi avevo avuto modo di apprezzate.

All’arrivo, la mia fonte (per prassi non si svela mai. Si verifica, ma non si rivela) aveva gli occhi che brillavano, come un bambino con in mano la chiave della stanza delle meraviglie. Le aveva toccate con mano, queste meraviglie, e ora sapeva anche meglio quanto mi sarebbero piaciute.
Incontro così Eleonora Fuser. Un nome, nel suo ambiente, una donna con storia e tradizione alle spalle, anzi dentro di sé, a plasmare ciò che è oggi. Energia pura, compressa e indirizzata. Occhi roventi, furore che si trattiene e perciò diventa ancor più potente in ogni sua espressione, anche in quelle più blande, se di blando si può parlare nel suo caso.
Il primo incontro è con la sua fisicità. A ben vedere, è quanto accade sempre, tra le persone, ma quando hai di fronte un attore la cosa assume una valenza diversa. Una fisicità intensa, potente. Al solo apparire, ti parla di esercizio, disciplina, ricerca, perfezione, forza, controllo, utilizzo di sé (corpo, voce, mente, spirito, energia) come strumento. Tutto per la Commedia dell’Arte. un’intensità che ti regala nella sua dimostrazione, che letteralmente ti investe (chiedetelo a quelli che hanno sorretto Balanzone quando è inciampato) e ti dà una sferzata di emozioni.
Inizia con la sfida: “conoscete la commedia dell’arte, no?”. E tutti a pensare “perbacco, certo, Arlecchino tutto colorato e Pantalone e Balanzone”. E finchè lo pensi, lei “non quella di Arlecchino tutto colorato, il Balanzone ecc., quella è roba ottocentesca”. Ottimo, allora è meglio che ce la racconti tu.

E così inizia un racconto, dottissimo (eh sì hanno ragione i leghisti a voler abolire la commedia dell’arte perché è uno spettacolo troppo intellettuale) e terrigno insieme. Un tema colto, di una cultura che è approfondimento di fatti antichi, che son le fondamenta del nostro essere, come le tradizioni popolari, esplorate addentrandosi in una notte dei tempi dove spesso è comodo lasciarle stare, per sostituirle con le tracce che sono riemerse in tempi più recenti. Tradizioni, modi di essere e di pensare, che è importante scoprire, non per spolverare l’erudizione ma per comprendere la funzione che hanno nella società, anche oggi. E niente ha questo ruolo quanto il teatro, che è cultura viva, dialogo.

Tanto per cominciare: commedia dell’arte. Arte come mestiere, che nasce ufficialmente nel ‘600, assieme ai caratteri, e si evolve assieme alla società. Fare commedia dell’arte oggi, o negli anni ’80 (gli anni della riscoperta di questa tradizione) significa per l’attore impregnarsi di quella cultura, rielaborarla facendola penetrare nella pelle fino a dare origine ad una personale espressione, in una forma che deriva da quella antica, anche nella funzione (di critica sociale, per esempio). Non inganni: un attore che si presenta facendo Arlecchino ha dedicato tutta la vita alla ricerca, conosce profondamente forme e opere letterarie antiche, potrebbe parlare come un professore universitario (di letteratura o di sociologia?) solo che poi ci mette tutto se stesso e diventa egli stesso Arlecchino: corpo, movenze, voce, parole, paure e gioie che sono anche le nostre.
Le maschere fanno paura. Non sono mascheramenti, ma il centro dell’identità che si costruisce attorno al corpo dell’attore, vero e proprio veicolo. È dalla maschera che nasce il carattere, le movenze del personaggio, il suo modo di pensare e di conseguenza di essere. Oddio! E se questo accadesse anche a me, tutti i giorni? Il problema era un altro, all’inizio. Ovvero essere, diventare il carattere e non semplicemente mascherarsi per stare dietro un’altra faccia. Però il pensiero l’ho fatto.
Poi siamo saliti a vedere il Museo Mondonovo Maschere, quello del maestro Guerrino Lovato. È lui che ha fatto le maschere per Eyes Wide Shut. Sarà una coincidenza?

giovedì, maggio 10, 2012

Concerto per voce ed ego


Mi trovavo ad un happening (così nessuno sa cosa sia esattamente e io posso raccontare in libertà), immersa in una penombra, (abbastanza) comodamente seduta, a poca distanza dal piccolo palco dove tutto accadeva, eppure in ultima fila, posizione “di rigore” per sentirsi rilassati.
Lo dice pure il Feng Shui, la posizione migliore è con le spalle “coperte”, ma lo dico anche io che, sempre sopra la media in quanto a stazza, vivo nel timore non tanto di oscurare altri, quanto di sentire i borbottii di disappunto al mio arrivo, manco lo facessi per fare dispetto, di essere più alta di molti.
Colpa della penombra, davvero densa, che dilagava in sala, mal contrastata della fioca luce sul palco, complice il relax di fine pomeriggio, il pensiero si è presto astratto.
E io distratta, appunto.
Le parole che fluivano cercavano di costringere la parte razionale di me a seguirne il senso, ad apprezzare arguzie del pensiero e gli arabeschi ricercati del protagonista e della sua dotta interlocutrice, che ingaggiavano in una “singolar tenzone” presumibilmente volta a dimostrare chi fosse più contortamente intellettuale dell’altro.
Ma il mio assecondare i sensi, mettendo il secondo piano il pensiero, vinse.
Ancora una volta.
Questo è un gran complimento che faccio alla serata, non si creda che voglia dire che ero poco attenta perché non interessata. Al contrario, l’effetto è stato lo stesso di quando ascolto musica dal vivo: la mente si alleggerisce, aleggia, l’udito diventa solo il primo tramite per passare ad un sentire diverso, che alla fine non si serve più dell’udito. Per questo la musica va ascoltata dal vivo, per farsi inondare delle vibrazioni, anche fisiche, del suono.

Comunque, ero lì – un po’ sì e un po’ no – le voci erano suono, non parola. I discorsi erano compiaciuti pezzi di bravura, prova dell’intricata concettualità di cose che potrebbero essere semplicissime, oppure normali e quindi non da sovrastimare come distillato di genio. Esempio: una fobia è una specie di malattia, a ben vedere, non necessariamente cifra di genio che fa sì che il comportamento fobico diventi addirittura oggetto di letteratura, e pure interessante per altri. Però devo riconoscere che vivere nel mito di sé paga, perché si convincono anche gli altri di questa superiorità assoluta.
Le voci erano molto gradevoli: un duetto di contralto e tenore che passava attraverso gamme espressive varie e variopinte. C’era anche un commento musicale, fintamente occasionale come sanno fare i bravi improvvisatori. Ma spiccava l’atteggiamento di posa del musicista, quello che punta a rendere straordinarie cose che comunemente sono considerate abbastanza di poco conto. Mistificazione, si direbbe. Come un cuoco che si mostrasse sudato e vinto dalla fatica psicologica per aver fatto un uovo sodo.
Insomma, un insieme di sensazioni e di pensieri di stampo cittadino, in una città pretenziosa, che cammina col naso all’insù per fare la gran signora, sperando che non ne passi una di vera (di gran signora) a sottolineare il contrasto.
Me ne sono andata presto, anche io con il naso all’insù.

Il giorno prima ero stata ad un reading, una cosa che nella sostanza potrebbe essere analoga, ma di tutt’altro sapore. A cominciare da quello dell’ottima sopressa che suggellò la fine dell’incontro.
Lettura di Meneghello (Piccoli Maestri e altri saggi) a casa di Giuriolo.
Un posto meraviglioso anche per i profani: in campagna, casa antica in mezzo alle vigne, in un giorno di maggio con le rose sfacciatamente sbocciate, tutte insieme, e un cielo grigio, di quello che “ti pare di toccarlo con un dito” e che forse a breve ci cascherà sulla testa. “Un tempo inglese”, ci dicevamo. A causa dell’improvviso acquazzone, tutti rifugiati in un capanno annesso alla casa, che un tempo fungeva da cantina, ora deposito attrezzi più o meno in disuso.
Ambiente ammaliante del fascino di un tempo che fu, dove ci siamo trovati a fare filò, nel vero senso del termine. Cinque o sei i lettori, di fronte ad un ammasso di persone, non giovani in generale, arrangiati in qualche modo su panche improvvisate, riempiendo ogni angolo, alla faccia delle norme di sicurezza. Ne guadagnava la poesia del contesto, il messaggio già potente pareva entrare nelle ossa, assieme all’umidità.
Ecco, i lettori, le voci che si prestavano ad amplificare le parole scritte, erano lì per il gusto della lettura, per condividere il testo, per aggiungere l’inflessione del parlato e l’enfasi delle bestemmie – quando serve.
Non divi ma piuttosto asserviti all’autore, e ancor più al suo messaggio, convinti di farne dono agli ascoltatori. Questo mi viene da pensare, senza sentire alcun obbligo di verificare la verità. Che ci fosse compiacimento? Può essere. Ma non mi fa nessuna differenza. Magari anche nell’appassionato lettore era l’ego a prevalere, non so perché ma soprattutto non lo voglio indagare.
Mi sono staccata a fatica da quei luoghi, con il rammarico per le mie scarpette “da città” che non andavano bene per il prato.

giovedì, febbraio 23, 2012

Bunker sì, bunker no.

Un bunker è un tunnel, ad andamento spezzato perché così, in caso di esplosione, si interrompe l’onda d’urto, e sene indebolisce la forza.
Perché mi hanno spiegato queste cose? Perché mi sto letterariamente occupando (anche) di bunker. Il romanzo di Luca Valente ha molto a che vedere con i bunker (per i dettagli, leggete “Indagine 40814”), e io vivo a cinquecento metri da uno dei pochi bunker che conosco della mia zona. Anzi, mi son documentata, il “nostro” è un esempio raro per l’intera Europa.

Una cosa strana, a pensarci oggi, un rifugio antiaereo costruito praticamente nel giardino di una villa palladiana, che per altro era usata come ospedale militare durante la Seconda Guerra, non ho capito se perché considerata stabile o perché un bene artistico non sarebbe stato preso come obiettivo sensibile.
Fatto sta che la villa è ancora lì, vecchia – bellissima - sana e salva, e il bunker pure.
Di più, l’Amministrazione comunale l’ha ristrutturato. Giusto, è un bene molto interessante, ed è buona cosa recuperarlo e restituirlo come spazio pubblico.
Ecco, spazio pubblico vuol dire che si può usare, anzi, che si deve usare, per far sì che le spese per la ristrutturazione possano portare a dei vantaggi per la comunità, e possano chiamarsi “investimento”.

Ora, decidendo di presentare il libro di Valente a Caldogno, quale ambientazione migliore del bunker che, come si legge nei comunicati stampa, «rappresenta una location suggestiva dal punto di vista costruttivo e, grazie all’impatto emozionale che riesce a suscitare attraverso differenti giochi di luci e ombre, ben si presta ad ospitare molteplici forme d’arte»?
La volontà dell’assessorato alla Cultura, si legge, è di rimettere in gioco lo spazio, con una serie di iniziative che lì si ambienteranno. Ottimo: la nostra proposta è di presentare il libro lì, in forma drammatizzata con dialoghi recitati da attori, proprio un bel progettino.

Invece no: dal tunnel Luca ed io non ci siamo usciti. Non ci siamo neanche entrati, se non in visita, e quindi non possiamo neanche vedere la luce alla sua fine. Insomma, nel tu-tunnel-el non ci andiamo proprio.
I responsabili non si prendono la responsabilità (non è una ripetizione, è proprio così, ed è assurdo) di portare gente nel bunker.
Non sono stati in grado neanche di saperci dire se nella data prescelta si sarebbero tenute altre manifestazioni (in un Comune con 10mila abitanti, è peggio che stare a New York, mica puoi sapere tutto di tutti!), salvo che poi, guarda caso, le date indicate dalla biblioteca per la presentazione del libro coincidono con una mostra nel bunker (l’avevamo pur detto che è uno spazio da usare).
Ah, ma allora è agibile? O i visitatori della mostra ci andranno a loro rischio e pericolo? Non mi tornano i conti. «C’è la mostra, non si può andare nel bunker», ci hanno risposto. Come, neanche per vedere la mostra? Oddio, getto la spugna.

Non sto facendo una campagna per salvare la vita a nessuno, ma fatte le debite proporzioni, in un Comune da 10mila abitanti queste son le cose che accadono, gli scogli che si incontrano, i piccoli dolori che vengono inflitti alla creatività e all’entusiasmo.
Speriamo non ce ne siano altri. Per non fare la Giovanna d’Arco della situazione, e poiché l’evento sarà per Luca e per il suo libro, la finisco qui.
Forse.