mercoledì, giugno 24, 2009

Grazie, Michelle!

Arrivo tardi. Chissà in quante lo hanno già pensato, qualcuno pure scritto (sul Corriere, per giunta) ma io giuro e stragiuro che l’ho pensato subito, al primo fotogramma.

Quando hanno trasmesso l’arrivo della famiglia Obama in Normandia, il vero sbarco lo ha fatto Michelle. Trionfale, perfetta (secondo la mia immodesta opinione, in fatto di etichetta), bellissima e forse anche con qualcosa in più: la sicurezza di esserlo, la noncuranza di tutto ciò che potrebbe dire il contrario. Una sicurezza che si traduce nell’incedere, forse un tantino “born in the USA” per il mio occhio di antico continente, ma decisamente comunicativo. Nemmeno quella di sorridere era una preoccupazione, per lei.

D’accordo, lo ammetto, ci sto facendo sopra un romanzo, magari lei era lì che contava fino a cento e controllava ogni passo … ma non credo (in realtà lo dico solo per dimostrare che l’entusiasmo non mi toglie l’onestà intellettuale).

Insomma, va bene che sei la first lady ma passeggiare accanto a Carlà credo che un pensierino lo faccia venire a chiunque. Le altre signore, prima d’ora, si sono misurate con eguali “colleghe”, che al massimo potevano far gareggiare tra loro gli stilisti (a parte la regina Elisabetta, che proprio non sa che farsene, degli stilisti, e compete solo a suon di cappellini).

Se tu, di tuo, su una passerella non ci sei stata mai, e resti nella categoria di “bella donna” senza poter ambire a quella di “dea che non cammina, ma vola ancheggiando il giusto”, trovarti proprio accanto ad un simbolo della magrezza elegante un sudorino lo fa venire, o no?

Invece a guardarle ho sentito sorgere in me un moto spontaneo di rivalsa: eccolo il vero simbolo della donna di oggi. Bella ma non solo, anche “normale”, giusta. Così giusta da far sentire bene anche tutte le donne che la stanno a guardare. Bella non vuol dire perfetta, e soprattutto non in confronto ad un modello che non esiste. E che per non esistere, invece, ti rovina la vita, a furia di farti sentire fuori luogo. Eleganza è anche portare a spasso una figura imponente (ma quanto alta è la Signora Obama?), con fianchi “importanti” e molto femminili.

Non è mancato chi ha stupidamente sottolineato che il bianco ingrossa. Ma cosa dice? Io direi che fa splendere la signora che lo indossa! Che splende già di suo, visto che non fa a gara con le non-forme della manechin. La quale, mi si conceda, trova nella cinturina del tubino, casta e dimessa, il suo emblema. Certo, raffinato, molto più del cinturone scintillante americano, ma decisamente con poco sale.

Quando guardo una donna penso: c’è un uomo che desidera tornare a casa per trovarci lei. In cucina o sul divano, o in giardino, oppure in ritardo, nel traffico. Tra le due first lady, preferirei tornare e trovare un tipo come Michelle. L’uomo più importante del mondo (e forse anche uno tra i più sexy), la pensa come me.

giovedì, giugno 04, 2009

Il primo violino e il formaggio di capra

Bello era e di gentile aspetto. Davvero galante, nel suo frak, elegante nei movimenti. Sul palco una delizia per gli occhi e per gli orecchi. Era il primo violino dei Berliner. Una specie di mito, talmente lontano da essere persino poco attraente, per una con i piedi per terra.

Poi, con un Coup de théâtre, le cose si ribaltano. Dall’uscita posteriore, quella degli artisti, obbligatoria ad una certa ora, si torna tutti uguali. Niente luci, niente frak, i violini nelle grigie custodie. Tutti in braghe corte e maglietta. Io più degli altri, dato che venivo da un pomeriggio da zia, iniziato con tour per recuperare le nipotine, stranamente affidate alla sorella evidentemente-poco-rassicurante, visita alle caprette della fattoria, con raccolta delle ciliegie (solo quelle cadute per terra!), esplorazione del nascondiglio dei gattini, tour della latteria e acquisto di latte crudo, da bollire. Un climax di emozioni, terminato solo con il rientro a casa delle entusiaste bambine. Felici almeno quanto la zia.

D’improvviso, la decisione su due piedi di andare al concerto, per non saper che altro fare. Una telefonata all’amica di sempre, ready in five, eppure raggiante nel suo look passepartout. Concerto che termina con offerta di accompagnare gli artisti, abbandonati a se stessi e affamati dopo la performance, ad un ristorante dove mangiare qualcosa di buono: come minimo pasta e pesce, per far loro sentire di essere in Italia.

A quel punto, SOLO a quel punto, vedo (con gli occhi della mente) la zozzura che ricopre la mia auto. A furia di rimandare il lavaggio, per pigrizia pure di aspettare il turno, me ne sono andata a concerto a bordo di una specie di zucca, prima di una magia che non sarebbe mai arrivata. Pazienza, mi devono solo seguire. I fari si vedono ancora.

Poi, un fatto inedito. Lui, proprio il primo violino che sul palco sembrava proprio bello, e di persona ERA proprio bello, si catapulta verso la mia auto. Con breve summit con la mia amica, a suon di sguardi inequivocabili, il responso è: “Ma quando mai uno così ti si caccia in macchina, di sua spontanea volontà?”. Poi si ritorna alla realtà, per la precisione nel momento in cui si carica il bagaglio del Berliner nel mio bagagliaio. Che saluta l’ospite con i carichi di piastrelle… quelle del bagno, in attesa di un deposito che avverrà in un qualche momento indefinito del futuro. Beh, piastrelline mica male, quelle a mosaico, almeno, ma come glielo spiego?

Con forte cigolìo si apre la portiera (già, il bello entra dalla porta che cigola, altro “pezzo di bravura”). Meldizione, faccio la figura da italiana da film anni ’60, alla Alberto Sordi, al mare con i panzerotti fritti. Tutto questo sparisce però, subito dopo, in un attimo. Già, quando si dice che è tutto relativo … mi torna in mente il torcinaso dei cavalli: una cosa atroce da vedere, che serve a distogliere l’attenzione del povero equino con un male più forte, finchè gli si somministra altro, tipo un’infiltrazione al ginocchio, che in confronto è un ballo in maschera.

Mentre il violinista cade sul sedile, io con gesto calcolatissimo, faccio appena in tempo a togliere al volo il sacchettino … con il formaggio di capra, che stava lì dal pomeriggio. Ci mancava solo quello. Spero che il Berliner fosse stanco abbastanza per non calcolare proprio tutto, che il sacchetto faccia la sua parte come isolante (esiste una puzza più riconoscibile del formaggio, e di capra, per giunta?).
Ho però il forte sospetto che abbia qualcosa da raccontare agli amici… a proposito di stereotipi.

Il giorno dopo ho lavato la macchina, dentro e fuori. Però mi veniva da canticchiare “Quando Pier s’accorse che manca la cavalla, chiuse ben la stalla e se ne andò. Oibò!”. Oibò ... oibò!