martedì, settembre 04, 2012

DUE SU DUE?


DUE SU DUE? Bionde contro more (tanto per cambiare)

Non me ne vogliano le bionde, ma anche sì, dato che giochiamo in squadre avversarie per forza di cose: due su due son troppe, se ti capitano lo stesso giorno.
Lido, Festival del Cinema. Un’indigestione di film, se non si sta attenti, e l’irresistibile tentazione di collegarne temi, motivi e chissà che altro.
Il bello del festival è (anche) che puoi vedere gli attori dal vivo, tastare di persona l’impatto che hanno come persone viste a tu per tu, e verificarne la concretezza. Così mi è capitato, anni fa, di scambiare quattro parole con una gentilissima, molto “easy”  e altrettanto trasparente Claudia Pandolfi. Alta quanto me, larga la metà, mi ha di certo colpita e fatta sentire vergognosamente in colpa per ogni merenda spuntino e aperitivo degli ultimi 30 anni (lacrime di coccodrillo, manco a dirlo). Ora quando la vedo in un film e tutti dicono “sembra magra, sarà la proporzione della tv”, io so che non è così. Che è magrissima e punto.
Quest’anno sono stata  in conferenza stampa di alcuni film. Lì gli attori vanno per contratto, e devono pure dire la loro, con alterne fortune (perché non leggono prima le dichiarazioni che i loro uffici stampa preparano per loro, e che tutti noi poi leggiamo nei giornali?).
Ora, in due film, visti a ruota, l’attrice è una biondissima, sofisticata attrice. Per par condicio, una era americana e una italiana, ma sempre super bionde, platino o quasi. Nei film, capello cortino e bruno.
Per il film americano, dalla sala arriva la domanda, per la regista: come mai ha scelto di avere l’attrice in versione bruna? (dico io: perché non hai preso direttamente una bruna, già che c’eri?). Risposta: per rendere più vero il personaggio.
La ragazza americana, figlia di buona famiglia upper class, se la fai pure bionda non ci crede nessuno che abbia una vita vera, dei problemi, dei sospesi e così via. Resta “personaggio” e mai “persona”.
Lo stesso accade in un italianissimo film. La bionda attrice (che al festival era sperticatamente bionda, direi, proprio senza mezzi termini) è una brava, niente da dire. Ma nel film viene “smorzata” in bruna con capello corto, proprio per portarla nella vita reale e nella tragedia domestica che interpreta dove, da biondo Marylin farebbe fatica a stare. Tanto che mia mamma, dopo averla vista in sala, da distante, pensava che nel film interpretasse una parte marginale (l’amante, tanto per non destar sospetti di stereotipo) e non la moglie tradita e affranta.
Quando giuro a mia mamma che quella moretta del film è la stessa biondazza in sala, il suo commento è lapidario: « E serve una sventola così per rendere una donna normale?» Il che mi fa riflettere anche del contrario. La donna ha quella faccia lì, che vedi sullo schermo, solo che poi fa la biondazza.

lunedì, luglio 16, 2012

Storia e magia della maschera


Non sapevo cosa aspettarmi dalla serata, che mi era stata proposta come un “evento unico al mondo, con un’attrice strepitosa”. In mancanza di ulteriori dettagli, la mia fonte mi dice “devi proprio venire, perché ti piacerà un sacco”.
Ora, o io sono un’incosciente, che mi butto in avventure di cui non so neanche il titolo, o la mia fonte ne sa davvero una più del diavolo, o l’apertura e la disponibilità a farsi toccare anche da cose che normalmente non ci appartengono stavolta è stata premiata. Alla grande.

Il titolo ce l’aveva, lo spettacolo, ma nemmeno quello descriveva appieno ciò che ci attendeva nel cortile del palazzo del centro. Titolo suggestivo - “Bacco e Apollo al museo” – per la verità, ma non troppo evidenziato tra le informazioni del volantino. Sottotitolo esaustivo, che però poteva scoraggiare: Opera dimostrativa sulle tecniche di Commedia dell’Arte… ecc.
Una lezione – spettacolo, leggo bene solo all’arrivo sul luogo dell’appuntamento. Ma restava forte la curiosità instillata da quel “ti piacerà moltissimo”. La mia fonte era testata, che già altre volte mi aveva proposto cose sui generis, che poi avevo avuto modo di apprezzate.

All’arrivo, la mia fonte (per prassi non si svela mai. Si verifica, ma non si rivela) aveva gli occhi che brillavano, come un bambino con in mano la chiave della stanza delle meraviglie. Le aveva toccate con mano, queste meraviglie, e ora sapeva anche meglio quanto mi sarebbero piaciute.
Incontro così Eleonora Fuser. Un nome, nel suo ambiente, una donna con storia e tradizione alle spalle, anzi dentro di sé, a plasmare ciò che è oggi. Energia pura, compressa e indirizzata. Occhi roventi, furore che si trattiene e perciò diventa ancor più potente in ogni sua espressione, anche in quelle più blande, se di blando si può parlare nel suo caso.
Il primo incontro è con la sua fisicità. A ben vedere, è quanto accade sempre, tra le persone, ma quando hai di fronte un attore la cosa assume una valenza diversa. Una fisicità intensa, potente. Al solo apparire, ti parla di esercizio, disciplina, ricerca, perfezione, forza, controllo, utilizzo di sé (corpo, voce, mente, spirito, energia) come strumento. Tutto per la Commedia dell’Arte. un’intensità che ti regala nella sua dimostrazione, che letteralmente ti investe (chiedetelo a quelli che hanno sorretto Balanzone quando è inciampato) e ti dà una sferzata di emozioni.
Inizia con la sfida: “conoscete la commedia dell’arte, no?”. E tutti a pensare “perbacco, certo, Arlecchino tutto colorato e Pantalone e Balanzone”. E finchè lo pensi, lei “non quella di Arlecchino tutto colorato, il Balanzone ecc., quella è roba ottocentesca”. Ottimo, allora è meglio che ce la racconti tu.

E così inizia un racconto, dottissimo (eh sì hanno ragione i leghisti a voler abolire la commedia dell’arte perché è uno spettacolo troppo intellettuale) e terrigno insieme. Un tema colto, di una cultura che è approfondimento di fatti antichi, che son le fondamenta del nostro essere, come le tradizioni popolari, esplorate addentrandosi in una notte dei tempi dove spesso è comodo lasciarle stare, per sostituirle con le tracce che sono riemerse in tempi più recenti. Tradizioni, modi di essere e di pensare, che è importante scoprire, non per spolverare l’erudizione ma per comprendere la funzione che hanno nella società, anche oggi. E niente ha questo ruolo quanto il teatro, che è cultura viva, dialogo.

Tanto per cominciare: commedia dell’arte. Arte come mestiere, che nasce ufficialmente nel ‘600, assieme ai caratteri, e si evolve assieme alla società. Fare commedia dell’arte oggi, o negli anni ’80 (gli anni della riscoperta di questa tradizione) significa per l’attore impregnarsi di quella cultura, rielaborarla facendola penetrare nella pelle fino a dare origine ad una personale espressione, in una forma che deriva da quella antica, anche nella funzione (di critica sociale, per esempio). Non inganni: un attore che si presenta facendo Arlecchino ha dedicato tutta la vita alla ricerca, conosce profondamente forme e opere letterarie antiche, potrebbe parlare come un professore universitario (di letteratura o di sociologia?) solo che poi ci mette tutto se stesso e diventa egli stesso Arlecchino: corpo, movenze, voce, parole, paure e gioie che sono anche le nostre.
Le maschere fanno paura. Non sono mascheramenti, ma il centro dell’identità che si costruisce attorno al corpo dell’attore, vero e proprio veicolo. È dalla maschera che nasce il carattere, le movenze del personaggio, il suo modo di pensare e di conseguenza di essere. Oddio! E se questo accadesse anche a me, tutti i giorni? Il problema era un altro, all’inizio. Ovvero essere, diventare il carattere e non semplicemente mascherarsi per stare dietro un’altra faccia. Però il pensiero l’ho fatto.
Poi siamo saliti a vedere il Museo Mondonovo Maschere, quello del maestro Guerrino Lovato. È lui che ha fatto le maschere per Eyes Wide Shut. Sarà una coincidenza?

giovedì, maggio 10, 2012

Concerto per voce ed ego


Mi trovavo ad un happening (così nessuno sa cosa sia esattamente e io posso raccontare in libertà), immersa in una penombra, (abbastanza) comodamente seduta, a poca distanza dal piccolo palco dove tutto accadeva, eppure in ultima fila, posizione “di rigore” per sentirsi rilassati.
Lo dice pure il Feng Shui, la posizione migliore è con le spalle “coperte”, ma lo dico anche io che, sempre sopra la media in quanto a stazza, vivo nel timore non tanto di oscurare altri, quanto di sentire i borbottii di disappunto al mio arrivo, manco lo facessi per fare dispetto, di essere più alta di molti.
Colpa della penombra, davvero densa, che dilagava in sala, mal contrastata della fioca luce sul palco, complice il relax di fine pomeriggio, il pensiero si è presto astratto.
E io distratta, appunto.
Le parole che fluivano cercavano di costringere la parte razionale di me a seguirne il senso, ad apprezzare arguzie del pensiero e gli arabeschi ricercati del protagonista e della sua dotta interlocutrice, che ingaggiavano in una “singolar tenzone” presumibilmente volta a dimostrare chi fosse più contortamente intellettuale dell’altro.
Ma il mio assecondare i sensi, mettendo il secondo piano il pensiero, vinse.
Ancora una volta.
Questo è un gran complimento che faccio alla serata, non si creda che voglia dire che ero poco attenta perché non interessata. Al contrario, l’effetto è stato lo stesso di quando ascolto musica dal vivo: la mente si alleggerisce, aleggia, l’udito diventa solo il primo tramite per passare ad un sentire diverso, che alla fine non si serve più dell’udito. Per questo la musica va ascoltata dal vivo, per farsi inondare delle vibrazioni, anche fisiche, del suono.

Comunque, ero lì – un po’ sì e un po’ no – le voci erano suono, non parola. I discorsi erano compiaciuti pezzi di bravura, prova dell’intricata concettualità di cose che potrebbero essere semplicissime, oppure normali e quindi non da sovrastimare come distillato di genio. Esempio: una fobia è una specie di malattia, a ben vedere, non necessariamente cifra di genio che fa sì che il comportamento fobico diventi addirittura oggetto di letteratura, e pure interessante per altri. Però devo riconoscere che vivere nel mito di sé paga, perché si convincono anche gli altri di questa superiorità assoluta.
Le voci erano molto gradevoli: un duetto di contralto e tenore che passava attraverso gamme espressive varie e variopinte. C’era anche un commento musicale, fintamente occasionale come sanno fare i bravi improvvisatori. Ma spiccava l’atteggiamento di posa del musicista, quello che punta a rendere straordinarie cose che comunemente sono considerate abbastanza di poco conto. Mistificazione, si direbbe. Come un cuoco che si mostrasse sudato e vinto dalla fatica psicologica per aver fatto un uovo sodo.
Insomma, un insieme di sensazioni e di pensieri di stampo cittadino, in una città pretenziosa, che cammina col naso all’insù per fare la gran signora, sperando che non ne passi una di vera (di gran signora) a sottolineare il contrasto.
Me ne sono andata presto, anche io con il naso all’insù.

Il giorno prima ero stata ad un reading, una cosa che nella sostanza potrebbe essere analoga, ma di tutt’altro sapore. A cominciare da quello dell’ottima sopressa che suggellò la fine dell’incontro.
Lettura di Meneghello (Piccoli Maestri e altri saggi) a casa di Giuriolo.
Un posto meraviglioso anche per i profani: in campagna, casa antica in mezzo alle vigne, in un giorno di maggio con le rose sfacciatamente sbocciate, tutte insieme, e un cielo grigio, di quello che “ti pare di toccarlo con un dito” e che forse a breve ci cascherà sulla testa. “Un tempo inglese”, ci dicevamo. A causa dell’improvviso acquazzone, tutti rifugiati in un capanno annesso alla casa, che un tempo fungeva da cantina, ora deposito attrezzi più o meno in disuso.
Ambiente ammaliante del fascino di un tempo che fu, dove ci siamo trovati a fare filò, nel vero senso del termine. Cinque o sei i lettori, di fronte ad un ammasso di persone, non giovani in generale, arrangiati in qualche modo su panche improvvisate, riempiendo ogni angolo, alla faccia delle norme di sicurezza. Ne guadagnava la poesia del contesto, il messaggio già potente pareva entrare nelle ossa, assieme all’umidità.
Ecco, i lettori, le voci che si prestavano ad amplificare le parole scritte, erano lì per il gusto della lettura, per condividere il testo, per aggiungere l’inflessione del parlato e l’enfasi delle bestemmie – quando serve.
Non divi ma piuttosto asserviti all’autore, e ancor più al suo messaggio, convinti di farne dono agli ascoltatori. Questo mi viene da pensare, senza sentire alcun obbligo di verificare la verità. Che ci fosse compiacimento? Può essere. Ma non mi fa nessuna differenza. Magari anche nell’appassionato lettore era l’ego a prevalere, non so perché ma soprattutto non lo voglio indagare.
Mi sono staccata a fatica da quei luoghi, con il rammarico per le mie scarpette “da città” che non andavano bene per il prato.

giovedì, febbraio 23, 2012

Bunker sì, bunker no.

Un bunker è un tunnel, ad andamento spezzato perché così, in caso di esplosione, si interrompe l’onda d’urto, e sene indebolisce la forza.
Perché mi hanno spiegato queste cose? Perché mi sto letterariamente occupando (anche) di bunker. Il romanzo di Luca Valente ha molto a che vedere con i bunker (per i dettagli, leggete “Indagine 40814”), e io vivo a cinquecento metri da uno dei pochi bunker che conosco della mia zona. Anzi, mi son documentata, il “nostro” è un esempio raro per l’intera Europa.

Una cosa strana, a pensarci oggi, un rifugio antiaereo costruito praticamente nel giardino di una villa palladiana, che per altro era usata come ospedale militare durante la Seconda Guerra, non ho capito se perché considerata stabile o perché un bene artistico non sarebbe stato preso come obiettivo sensibile.
Fatto sta che la villa è ancora lì, vecchia – bellissima - sana e salva, e il bunker pure.
Di più, l’Amministrazione comunale l’ha ristrutturato. Giusto, è un bene molto interessante, ed è buona cosa recuperarlo e restituirlo come spazio pubblico.
Ecco, spazio pubblico vuol dire che si può usare, anzi, che si deve usare, per far sì che le spese per la ristrutturazione possano portare a dei vantaggi per la comunità, e possano chiamarsi “investimento”.

Ora, decidendo di presentare il libro di Valente a Caldogno, quale ambientazione migliore del bunker che, come si legge nei comunicati stampa, «rappresenta una location suggestiva dal punto di vista costruttivo e, grazie all’impatto emozionale che riesce a suscitare attraverso differenti giochi di luci e ombre, ben si presta ad ospitare molteplici forme d’arte»?
La volontà dell’assessorato alla Cultura, si legge, è di rimettere in gioco lo spazio, con una serie di iniziative che lì si ambienteranno. Ottimo: la nostra proposta è di presentare il libro lì, in forma drammatizzata con dialoghi recitati da attori, proprio un bel progettino.

Invece no: dal tunnel Luca ed io non ci siamo usciti. Non ci siamo neanche entrati, se non in visita, e quindi non possiamo neanche vedere la luce alla sua fine. Insomma, nel tu-tunnel-el non ci andiamo proprio.
I responsabili non si prendono la responsabilità (non è una ripetizione, è proprio così, ed è assurdo) di portare gente nel bunker.
Non sono stati in grado neanche di saperci dire se nella data prescelta si sarebbero tenute altre manifestazioni (in un Comune con 10mila abitanti, è peggio che stare a New York, mica puoi sapere tutto di tutti!), salvo che poi, guarda caso, le date indicate dalla biblioteca per la presentazione del libro coincidono con una mostra nel bunker (l’avevamo pur detto che è uno spazio da usare).
Ah, ma allora è agibile? O i visitatori della mostra ci andranno a loro rischio e pericolo? Non mi tornano i conti. «C’è la mostra, non si può andare nel bunker», ci hanno risposto. Come, neanche per vedere la mostra? Oddio, getto la spugna.

Non sto facendo una campagna per salvare la vita a nessuno, ma fatte le debite proporzioni, in un Comune da 10mila abitanti queste son le cose che accadono, gli scogli che si incontrano, i piccoli dolori che vengono inflitti alla creatività e all’entusiasmo.
Speriamo non ce ne siano altri. Per non fare la Giovanna d’Arco della situazione, e poiché l’evento sarà per Luca e per il suo libro, la finisco qui.
Forse.

venerdì, dicembre 30, 2011

Indagine 40814

Il primo romanzo di Luca Valente è un giallo a sfondo storico, e non stupisce, visto il curriculum dell’autore (che prima di questo ha scritto numerosi saggi storici che riguardano la “sua “ Schio, e dintorni, teatro di ricche pagine di guerra e di resistenza).

È curioso conoscere l’autore di un libro, specie quando questo ti attrae fin dalle premesse, e quando, a lettura completata, ne sei completamente conquistata. In realtà la mia conoscenza con Luca, vecchia di almeno dieci anni, è molto superficiale e mi fa pensare a quanto, pur trentenne e laureata (due cose che a parole fanno di te una persona matura) avessi ancora la testa nel sacco. Lavoravamo per una stessa piccola società, con compiti che potevano essere complementari, eppure ci siamo raramente incrociati, più alla macchinetta del caffè che sul lavoro vero e proprio. Magie (storture) dei contratti a progetto, che rendono evanescenti i ruoli e inconsistente il senso di appartenenza ad un gruppo (l’azienda), e magie delle macchinette del caffè, specie se vicino all’uscita per i fumatori, che possono più di ogni seminario di team-building.

Insomma, complice il social network, come ben si conviene ai nostri giorni, vengo a sapere di questo libro, e la simpatia per l’autore mi spinge ad impegnarmi ad andare ad una sua presentazione. Per la quale, addirittura, sono riuscita a schiodarmi da casa la sera della prima del Don Giovanni alla Scala, in diretta (che ho poi recuperato l’indomani – niente paura!). Ma quella sarebbe stata l’ultima occasione per incrociare una presentazione di Indagine 40814.
L’entusiasmo del presentatore della serata, che aveva genuinamente apprezzato l’opera, e la modesta tranquillità di Luca (dissimulava l’emozione? oppure è ormai navigato in queste cose?) hanno reso la serata piacevolissima, interessante e pure divertente.


Andando alle cose serie, il romanzo porta in sé, come naturale, le varie sfaccettature del suo autore. Ma qui viene il bello, perché Luca Valente ha il merito, o la fortuna, di accentrare su di sé il mondo del giornalismo e quello della ricerca storica, per molti versi contrastanti (nei metodi, negli atteggiamenti), e la ricerca spirituale (fino all’esoterismo) che per passione ha approfondito nel tempo. Il tutto si condisce con una notevole vena introspettiva, che gli ha permesso di creare personaggi di grande forza narrativa, entrando nella psicologia di ciascuno con delicatezza e profondità sottile. Sono persone vere, non stereotipi (anche se funzionali al racconto) alle quali il lettore si affeziona in breve tempo, restando letteralmente incollato al libro, che finisce per divorare in poco più di quattro tranche (sacrificando volentieri anche appuntamenti e occasioni sociali, se serve, pur di scoprire come procede la storia).
Se Valente si ispira ai narratori di successo, alla Ken Follett, devo dire che il paragone tiene. E personalmente lo estendo anche a Steig Larsson, che con la sua trilogia di Millennium (ancora una volta avventure di giornalisti?) ha opzionato l’intero tempo libero della mia ultima vacanza estiva.

Indagine 40814 parte da una trama fitta e ricchissima, che porta la vicenda attraverso intrighi, colpi di scena, avventure al limite (i personaggi “normalissimi” in partenza si trovano ad affrontare minacce, rapimenti, fino ad una sorta di discesa agli inferi da cui “tornare a riveder le stelle” in modo modernamente rocambolesco, non scevro da suggestioni da film d’azione), in un crescendo di intensità e di ritmo degli avvenimenti, fino ad uno scioglimento dei misteri (necessario per accompagnare il lettore ad una serena conclusione) e addirittura ad un lieto fine, per nulla stucchevole perché, ancora una volta, vincolato ad un realismo psicologico dei personaggi davvero apprezzabile.

Analizzando il libro, ci si trova giocoforza a pensare ad una gerarchia dei personaggi. Ed ecco che i due protagonisti sono Elena ed Enea. A dire il vero sono tre, con Ettore, che insieme formano la terna degli “omerici”, dati i nomi. Coincidenza (e naturalmente tutto il libro è una dimostrazione della tesi che le coincidenze non esistono, ma hanno un senso che prima o poi arriva a manifestarsi) che ritorna spesso con altre citazioni nel libro, e di cui i protagonisti sono perfettamente consapevoli.
Il romanzo ha una forte componente storica, e per questo lega in modo non lineare, a creare una trama intricata e consistente, ben quattro epoche, distanti tra loro e con fatti apparentemente isolati, per scoprire invece tutte le connessioni tra antico e moderno: si tratta di una spedizione di monaci germanici qualche anno prima del Mille, dei mesi terminali della Seconda Guerra, degli anni del liceo dei protagonisti (che per avventura sono miei coetanei – come pure dell’autore) e del presente, tempo in cui si svolge la vicenda iniziale, e principale, che funge da risoluzione delle tre precedenti.

Il passato che ritorna, con insistenza.
Piacciono da subito i personaggi, ben delineati nel carattere, nella psicologia e nei sentimenti. Quasi stupisce la capacità descrittiva, in particolare, dell’universo femminile, ben compreso nelle sue complessità e rappresentato con grande attenzione alle sfumature. Le donne sono quasi meglio definite degli uomini, forse perché sono personaggi più sfaccettati e meno prevedibili, forse perché l’autore sente la sfida di creare qualcosa così diverso da sé (è difficile non cedere alla tentazione di immaginare un legame tra Valente ed Enea, che peraltro non viene descritto nei dettagli, anche fisici, a differenza di Elena e delle altre figure femminili del romanzo).

Tra i fili rossi del romanzo, una tensione emotiva tra i due, fortunosamente single, sin dal loro primo incontro. Anzi, ri-incontro, dopo un presunto flirt giovanile. Complici le situazioni eccezionali che li uniscono, e li costringono anche ad una convivenza (come nella più romantica fantasia, molto femminile), Elena ed Enea scoprono un sentimento reciproco, fatto di attrazione fisica e mentale.
Non si contano le occasioni sprecate, mancate da Enea che tarda a prendere l’iniziativa esplicitando quello che entrambi desiderano, raggelando diversi slanci di Elena che arriva alla consapevolezza dei propri sentimenti attraverso la gelosia.

Non dimentichiamo che si tratta di un’indagine, di un giallo (con sfumature di noir, qua e là). L’intrigo che si palesa sin dall’inizio del libro va complicandosi man mano che gli investigatori vi si addentrano, in un crescendo di tensione e di colpi di scena. Il mistero da risolvere è molteplice, e appartiene anche alle epoche lontane. Il lettore viene accompagnato verso la profondità (del passato, di fatti oscuri di cui si è quasi persa la memoria), rendendo familiari gli avvenimenti e appassionandolo ad ogni vicenda, fino a quelle dei personaggi “minori”, che tali non sono mai.
La forma di diario, con capitoli brevi scanditi dall’indicazione di luogo e data, favorisce l’orientamento del lettore nel continuo passaggio da un’epoca all’altra, e consente di non perdere mai il filo del discorso.
A completare il quadro di fluidità tra le epoche, una commistione tra razionalità estrema e fede nei segni del soprannaturale, primi tra tutti i sogni, che vengono considerati con serietà come tracce della realtà che esiste, e li attende in qualche luogo, o tempo.

Se siete arrivati a leggere fino a qui, e se vi solletica l’idea di leggere “Indagine 40814”, posso ora anticipare che il colpevole è
Niente paura, lo scoprirete da soli! L’unico rammarico è che il piacere della lettura durerà poco, e resterà il desiderio di un prossimo romanzo di Luca Valente, alla scoperta di nuove avventure che le zone a noi tutti familiari, come Schio o il Tretto, celano in qualche segreta piega del passato, ancora non emersa alla luce.

Le donne giocano con i trucchi

Divertirsi” è la parola d’ordine, quando si tratta di truccarsi. Lo penso da sempre.
Il mio approccio con i cosmetici non riguarda propriamente il make-up.
Il ricordo più antico che ho (a parte il profumo del rossetto della mamma, che oggi non si sente più nei prodotti in vendita. Sarà stato cherosene, forse – erano gli anni ’70 – ma mi piaceva moltissimo) si riferisce ad un compito per “educazione artistica”.
Ero alle scuole medie.
Per il disegno su cartoncino ho usato due vecchi ombretti, verde e azzurro, che sfumavano benissimo! Quella sensazione tattile e olfattiva mi è rimasta, e con essa il piacere di avere a che fare con i cosmetici, di cui valuto la qualità in base alla texture nel momento in cui li tocco per truccarmi, prima ancora che per la resa finale.

Oggi, che son cresciuta e che mi occupo di immagine, non cambia il senso di gioco collegato al trucco.
E KIKO Make up pare saperlo bene.
Il “primo incontro” con questo brand è stato casuale, in un centro commerciale come altri. Mi attirano le luci, l’ordine e lo schieramento della tavolozza di smalti e ombretti. I prezzi bassi mi fanno pensare male, di primo acchito. Poi un’amica mi dice con entusiasmo che sono tutti prodotti italiani. La cosa non aggiunge un gran che alla mia valutazione. In Italia si fanno cose ottime e altre meno, come ovunque. 

Quello che mi conquista invece sono le commesse, chiamiamole così per praticità. Sono giovani (!) ma molto preparate. Hanno il look da make up artist, con il tascone con i pennelli legati alla cintola, come i muratori americani (qui si va avanti a immaginario collettivo), ma dietro questo sta una salda preparazione tecnica. Formazione aziendale? Spero di sì. 
Ottimo approccio al cliente, con simpatia. Danno del “tu” pure a me che potrei essere loro madre, ma non voglio pensarlo e quindi mi gratifica essere trattata alla pari. “Pèrdono” tempo a cercare il colore del fard che ti sta meglio, ti offrono anche un accenno di trucco (per un trucco completo basta prenotare), ti insegnano quale pennello usare. Non spingono forzatamente sulla novità o sul prodotto di punta, propongono al pari le cose in offerta speciale.
Usano loro stesse i prodotti (ti fanno vedere come si potrebbe ottenere risultati meravigliosi con le scatolette che hai lì a disposizione) e ti sanno dire in modo convincente che funzionano, a parte le creme contro la cellulite, dato che il problema non le sfiora neanche negli incubi.
Se recitano, lo fanno benissimo. 
In ogni caso, il “tono di voce” è lo stesso del profilo Fb, ovvero di quello tra pari che si scambiano idee su un prodotto, pur lasciando palese il fatto che loro stanno lì per vendere, non per farti bella e poi … bella ciao!

Entrare in quella che corrisponde alla casa di Barbie per una bambina di 5 anni è meraviglioso (specie quando i 5 anni sono ben distanti) ma richiede qualche attenzione.
Innanzitutto, non andarci con le persone sbagliate. Quelle che ti dicono che stai perdendo tempo. È tempo di svago, certo, non migliora le sorti del mondo ma non per questo deve essere bollato come colpevole.
Regola nr.2: niente fretta, il gioco assorbe l’attenzione e il tempo scorre via.
A meno che non si stia facendo un semplice rifornimento dei prodotti di sempre, e anche così teniamo presente che l’occhio cadrà su una sfumatura nuova, che ti verrà voglia di provare un look diverso, di rivedere i colori dei rossetti che l’altra volta hai lasciato là, e così via.
La compagnia ideale sono una/due amiche, egualmente interessate al gioco, fa lo stesso se sono esperte o neofite delle gioie del make-up.
Il risultato sarà di spirito più leggero (ti stai prendendo una mini-vacanza, tutta per te, in fin dei conti), di liberazione da cliché che ciascuno porta, come una croce (ma chi te l’ha detto che il rossetto rosso o il fard non fanno per te? Prova, e poi vedrai!), divertimento e relax.
Praticamente un toccasana per creatività e buonumore.
E vogliamo chiamarli ancora trucchi?

martedì, luglio 26, 2011

RAGIONE E SENTIMENTO E CALESSI D’OGNI SORTA

Ci sono tutti gli ingredienti: l’estate, tempo da ombrelloni e romanzetti rosa (di quelli che valgono forse meno della carta su cui sono stampati), voglia di far poco, cuore sbigottito e tenero (ottima fonte per banalità che potrebbero essere condivise da un target dai contorni sfuocati di lettrici).
È irresistibile la tentazione di mettere in fila i risultati di tutto questo, una vera fiera delle banalità che urge dentro di me, e trova uscita solo dal refill della biro, il pronto soccorso universale per borsetta che ultimamente non dimentico mai di portare con me.
Mancano dieci minuti al mio appuntamento di lavoro, sono dieci giorni che rimugino sensazioni, sentimenti, pensieri. Uno yo-yo tra razionalità di stampo settecentesco, tutto causa-effetto (però, a ben vedere, chi se ne frega delle cause, lasciatemi guardare gli effetti e amen, il resto si attacchi dove meglio crede), e dall’altra parte un tenero sentire, qualcosa di piccolo, delicato, impalpabile, umile eppure insistente, come un bambino che con la sua vocina ripete “portami a veder i cavalli” e non demorde, non si addomestica alle spiegazioni, che pure comprende. Ha ragione lui: le spiegazioni stanno su un altro piano, lui è di un altro mondo, fatto di desideri, di speranze e di un sentire che è certezza. 

Io che bambino non sono, e mi porto appresso strati e strati di incontri, letture, filosofie, colloqui, provo a scoprire le carte. Faccio il gioco del “se fossi” e penso al genio della lampada. Cosa gli chiederei, con la mia vocina insistente e magari un po’ piagnucolosa?
Ma prima voglio tirare fuori tutto, ed escono le solite cose: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona…”. Accidenti, suona come una condanna, un aut-aut. Se ti senti “perdonato” da Amor, vuol dire che … era un calesse! Pace. 
Riaffiorano le parole della curandera (sì, ho incontrato pure una curandera, che non so se cura, ma ispira di certo, come ogni persona “evoluta” anche solo per se stessa) che mette tutto sull’energia, quella che devi sentire dentro di te fluire con potenza e calma, e quella che ti assorbono gli altri, e non sempre a proposito. E decido che non devo fare proprio nulla, e al tempo stesso tutto. 
Sto lì seduta come la dea Kalì (che non so assolutamente cosa faccia lì seduta, ma ci sta) e divento un centro, di energia. Un po’ così mi sento, nonostante la parte razionale mostri di arrabattarsi, di combattere. Ecco, se sei veramente potente (come può esserlo chi lascia fluire l’amore dentro sé) non devi scapigliarti tanto, le cose verranno. Quelle che verranno saranno buone, o comunque serviranno a qualcosa, le altre saranno un nulla di perso, in fondo. Ora mi sento forte di questo. Che stranezza, dato il momento. Eppure …
Wow, quanta saggezza, non ci credo nemmeno io. È il refill che fa tutto, io non volevo.

E il calesse? Beh, il calesse serve a portarti da qualche parte. Anzi, diciamo che sei certa che si tratti di un calesse quando comprendi dove ti ha portato. Questa però è la fiera delle consolazioni! Tanto, che cambia? Nulla, nei fatti. Molto nella possibilità di crescere. E riscoprirsi, magari, migliori di prima. Falsa partenza, si ripeterà e farà trionfare il vincitore. Errore di percorso, sarà un insegnamento, o un banco di prova, o un errore e basta. Chi vivrà, vedrà. Approfitto del momento positivo ed energico per fare bella figura con la lettrice (queste sono robe da femmine), perché so che presto sarà seguito dai suoi molti contrari, e lo yo-yo continua, lasciando una scia di sonno al povero cuore strapazzato.
Caro genio, lo sai tu quel che voglio: è qualcosa di semplice e raro, bello e spaventoso, coraggioso fino all’incoscienza e deciso contro ogni ostinazione. È il posto cui si appartiene, e che si riconosce in un istante, all’improvviso, magari quando si sono dipanati pregiudizi e timori, i nuvoloni che nascondono un sole che sta sempre lì, per ciascuno di noi.

mercoledì, giugno 22, 2011

Reciprocità


Non ti offro la spalla su cui piangere. Non voglio essere consolata.
Non sto soffrendo. Ho sofferto in passato e ora sono una cosa diversa anche grazie a quel dolore.
Per questo non voglio essere il balsamo di nessuno.
Voglio incrociare il momento giusto di qualcuno, e vibrare alle sue vibrazioni, come le canne di una campana a vento.

Voglio tornare ad essere allegra, nel profondo, e spensierata come una ragazza.
E dopo, solo dopo, aprire gli occhi e vederti, se ci sei.
E sennò sorriderò agli angeli.
Non voglio sanare la rabbia, correggere le storture, colmare ammanchi di alcun genere.
Voglio essere la cosa giusta al momento giusto. E nessuno sa perché. Neanche noi.

E tutto il resto è più che dimenticato. Inoffensivo. Nessun sentimento, neanche negativo.
Tutto il resto è semplicemente fuori dalla vita di oggi e di domani.
Un film da guardare dall’ultima fila della sala, e se ci si stanca si esce a metà del secondo tempo, per fare di meglio.