martedì, dicembre 21, 2010

Scrivere... o non scrivere?


Già sento, nel sottofondo della mia mente, il motivetto di Paolo Conte “Via con me”, con quel ritmo lento e ondeggiante che invita ad iniziare un elenco, cantato oppure parlato. “Scrivo perché…”  a quel punto una serie di arguzie, che permettano di toccare i diversi registri, dal comico al tragico, passando per l’autoironico, che più di tutti svela la verità.

Oppure no. Diciamo le cose lisce, per una volta, senza artifici pseudo-letterari, senza desiderio di stupire.
Ecco, sto scrivendo, e lo scrivere mi prende la mano. Forse allora scrivo perché “la scrittura vien scrivendo”? Senz’altro. Scrivendo si mettono le parole, e le idee, in fila indiana, una dietro l’altra. Si fa ordine. Come in un armadio misterioso e infinito dove, non si sa come, sono finite dentro tante cose. Cose che prendono vita, si trasformano, e che tornano fuori in momenti strani, in modi inopportuni, solo perché, per qualche strano motivo, tocca a loro.

Le idee sono soldatini di piombo che si animano e motu proprio escono inesorabili dal baule. Nascono dai fatti della quotidianità, dalle persone più comuni, più vicine, che sono dei veri e propri personaggi, a caricaturarli un po’ (anche pochissimo). Nascono per dare forma a qualcosa che sta in me, pericolosamente.
Questo è di certo il motivo per cui non scrivo. Per cui non ho ancora scritto qualcosa di veramente mio. Non sono in grado di celare, di camuffare il mio “io” più profondo. La scrittura è controllo, e il controllo è difficile da raggiungere, se si vuole unito alla grazia, come fa la ballerina che leggiadra volteggia sulle punte: controllo totale, la fatica dissimulata da naturalezza e da un lieve sorriso sul volto rilassato. 

Il mio analista, ne avessi uno, direbbe che scrivo per questo. Che ci provo, almeno (è questo tentativo che interesserebbe a lui, non il risultato), che scrivo perché anche mio padre scrive, che scrivo per dare fastidio a mia madre, per farle scontare tutte le volte che “sei proprio uguale a tuo padre” era un insulto.

Scrivo per mestiere, per dare voce al cliente che non sa esprimersi. Per la soddisfazione dell’intervistato che non riesce a credere come un suo discorso disordinato di un’ora esca in 2500 battute facili da comprendere e allo stesso tempo esaustive. Scrivo perché certi fatti vanno raccontati, e ci vuole qualcuno che li racconti. I miei preferiti sono i fatti apparentemente piccoli, umili come i personaggi del Manzoni, che però tutti conosciamo più e meglio degli eroi dell’Alfieri. Storie minime, che i protagonisti non sanno descrivere a parole senza usare le mani e il luccichio degli occhi per raccontarli. E invece si possono scrivere, e regalare a tanti.

A volte scrivo con il compiacimento del prestigiatore che estrae il coniglio dal cappello. “Visto, come è facile? Pardon, come diventa facile in mano a me?”. Ma poi non mi piace. Meglio scrivere perché le tue amiche ti dicono “dovresti proprio scrivere”.

Soprattutto, scrivo quando trovo qualcosa che meriterebbe di essere letto. Scrivo per divertire, è l’unico scopo che trovo davvero utile, che non ho niente da insegnare a nessuno. Divertire invece è prezioso. Allo stesso tempo, scrivo per dimostrare che sono seria, a volte seriosa, ma il mio spirito è leggero, volatile come il capogiro di un’ebbrezza appena accennata, diciamo al secondo bicchiere di bollicine.  
Attendo di scrivere per non dimostrare niente a nessuno.


lunedì, novembre 29, 2010

Come in un film


«E, dimmi, come vi eravate conosciuti?». Mai domanda mi fu più gradita, almeno ora che la vicenda è passata e fa parte in modo irrevocabile dei miei ricordi. Quelli lontani, depurati di ogni sfumatura negativa; ne resta solo il racconto dove trionfano, ipertrofiche, le parti belle, da sogno.
La mia nuova amica era curiosa: una storia con l’ufficiale di Marina. Proprio da romanzo rosa.
«Ah, guarda, è proprio una bella storia!» iniziai, quasi a preparare il pubblico al racconto di un episodio da favola, e decisa a sorvolare sulla fine ingloriosa dell’intera vicenda, alquanto prosaicamente conclusasi con una sorta di fuga verso l’ignoto da parte di uno dei protagonisti.
«Dunque – attaccai - la mia amica faceva la festa di laurea. Io lavoravo a Verona, era una delle prime esperienze in una delle tante agenzie capeggiate da donne isteriche che avrei incontrato nella mia “carriera”; tornavo stanchissima dalla giornata e dal viaggio da pendolare delle Ferrovie. Quella sera non avevo davvero la più pallida intenzione di alzarmi dal divano, per andare ad incastonarmi in un altro, mangiando patatine stantìe, sicura che il livello di mondanità dell’evento tendesse a zero: avrei incontrato le solite conoscenze femminili, per niente glamour; maschi interessanti, manco a pensarci. La mia amica se ne era quasi scusata: il parterre era dei meno attraenti, con nessuna chance di incontri validi. Una prospettiva davvero deprimente. Nella mia testa, rapide, si succedevano riflessioni scoordinate: “devo anche imparare a dire di no, a non sentirmi obbligata da un invito” e subito dopo “la Mau ci resta male, che faccio, boicotto la festa di laurea? Non ne capita un’altra. E se poi manco si sposa (parallelo dato dall’assunto di partenza, quanto mai fallace, che ci si sposa una volta sola), che faccio, mi perdo l’unico evento della sua vita?”, e via così. Alla fine mi alzo, mi trucco, pensando, senza crederci troppo, che almeno così, nella desolazione generale, avrei rappresentato qualcosa di guardabile, e vado.
Le previsioni non erano lontane dalla realtà, se non fosse stato per un clima meraviglioso di festa, di piacere di stare insieme, di sorpresa nel ritrovarsi dopo tanto tempo che mi accolse all’arrivo in una casa che non era quella della Mau, bensì la villetta a schiera confinante.»
«Finalmente sei arrivata! Aspettavo solo te!» mi fece vergognare la mia amica, al settimo cielo per la festa che si era organizzata. «Hai visto, il mio vicino John mi ha offerto di fare la festa a casa sua, tanto lui non c’è mai, la casa è enorme e vuota. Domani gliela ripulisco e non ci penso più.»
«Ti lascia la casa, se ne va lasciando la porta aperta, e tanti saluti? Che strano modo di fare. Molto “cool” si direbbe, e un vero colpo di fortuna!». «No, John non è via, è in taverna con un amico, si fanno qualche birra, poi verranno a salutare. Per loro, gli americani, fare così è normale. Qui di feste se ne fanno molte. Fanno un casino da paura, arrivano decine di persone, credo che non si conoscano ma spargano la voce che c’è la festa. Portano solo birra. Lui viene il giorno prima da mia madre, con un sorriso da qua fin là, anticipa che ci sarà “un po’ di chiasso”, lei si intenerisce a vedere una sorta di texano con gli occhi di ghiaccio, in versione gentile, che potrebbe essere suo figlio, ed è fatta. Quindi stasera la festa è qui!»
«Hai capito, la Mau! – pensai. Dai, buttiamoci sulle patatine. Da lì in poi si avverò quasi tutto: conoscevo metà della gente e l’altra metà non l’ho mai conosciuta. Incontrai con piacere amici di vecchia data che non vedevo da tempo ed era tutto un aggiornarsi sulle novità che, a quell’età, si susseguono veloci: finiti gli studi, uno stage, un incarico in agenzia. Tutto sembrava molto più emozionante di quanto non si rivelò in seguito. Per farla breve, si andò avanti così fino a tardi. Solo allora, che quasi stavo pensando di alzare le tende, si aprì la porta della taverna e lo vidi. Ora non ricordo se rimasi paralizzata, con sguardo ebete fissando il vuoto, o se fulminai la Mau come a dire “scusa, e questo lo tenevi nascosto in cantina?”. Forse entrambe le cose, in una frazione di tempo che parve un secolo. Davvero, una figuraccia da manuale, meravigliosa, di quelle che si fanno a vent’anni e poi si raccontano per i successivi venti. Meno male che anche lui non fu da meno e che non riusciva a staccarmi gli occhi di dosso (benvenuti, naturalmente), come poi mi confessò. Forse nemmeno lui si aspettava che una delle italiane invitate potesse destargli il minimo interesse. Devo dire che è una sensazione impagabile. Avevo pure tutta l’invidia delle mie amiche che si erano accorte del colpo di fulmine e che non mancavano di sottolineare l’impasse con gomitate neanche troppo celate.
Insomma, da lì fino al momento in cui davvero partii alla volta di casa passò ancora molto tempo. Nessuno di noi due voleva cedere all’ovvietà che prima o poi me ne sarei dovuta andare, e gli ultimi, irriducibili, rimasti, tra cui la Mau che si stava sacrificando per la buona causa, mi tennero bordone finchè fu possibile.»
«Che storia incredibile, da film» finalmente la mia amica poteva prendere la parola. Forse stentava a credere che proprio a una come me fosse capitata una cosa del genere.
«Ecco, così ho conosciuto John, con cui ho passato l’estate, il Natale, il capodanno, il mio compleanno, in primavera, e poco più. Ma è ancora il mio ricordo più romantico. Insomma, uno dei miei ricordi più romantici …»
«Come, ce ne saranno mica degli altri? Racconta, dai!»

mercoledì, settembre 29, 2010

L'amico del cuore

Il tema è annoso, ovvero: uomo e donna possono essere amici? Da giovane (sigh) teorizzavo che sì. Ho avuto amici uomini che si sono dimostrati i più duraturi, i meno deludenti. Forse proprio perché non si arriva con loro ad un grado di confidenza “intricata” come accade tra donne. Intrico che porta, spessissimo, a pessime conseguenze, a litigi e persino divorzi, con più o meno rumore, in modo inversamente proporzionale all’età.

Poi ho avuto un periodo in cui mi ero rassegnata, sulla scia di amiche femmine, che la cosa sia impossibile. Il teorema è: almeno uno dei due ci farebbe un pensierino per “qualcosa di più”…
Ora, qui le teorizzanti si dividono in due categorie: quelle che, a conti fatti, bene o male, alla fine sono finite a letto con più o meno tutte le loro conoscenze maschili (dall’amichetto dell’asilo al vicino di casa, all’amico dell’ex-moroso, al collega… e se sono fortunate, qualcuno apparteneva a più di un gruppo di quelli elencati); e quelle che invece hanno avuto un solo moroso dall’asilo in poi, e ogni altro maschio è stato guardato storto e tenuto a distanza come si farebbe con i Barbari all’attacco. Molto spesso, credo io, con una precauzione del tutto sovrastimata, dato che non molti attacchi stavano venendo progettati … ma non diamo fiato alle trombe della cattiveria.

Dunque, ora che sto raggiungendo la “mezza età” – minuto di silenzio, che la cosa è grave – arrivo ad un compromesso. Mi capita di sentire che ho un (altro) amico del cuore. Sì, nella mia vita ne conto ben 2. Ma proprio “amico del mio cuore”, almeno così lo sento. E forse è anche vero che la relazione è asimmetrica, che forse è solo questione di un’attrazione che (vuoi vedere?) è connaturata al rapporto maschio-femmina (con esclusione del tabù parentale) ma che in questi casi si tiene sotto coperta, sotto il livello di guardia.

All’amico del cuore hai confidato (o è ne stato testimone) cose molto ma molto personali e delicate, ma non lui non ne fa mai uso, o al massimo riesce a fartici ridere sopra, che non è poco.
Naturalmente, lo stile degli incontri è da partita – birra – rutto libero. L’affetto si esprime a suon di prese in giro feroci, e io che lascio fare (cosa inedita!) perché riesco a leggerci dietro l’affetto. E se non riesco, colpisco duro pure io.

La categoria 2 delle amiche, a questo punto, indaga: non è che magari c’è sotto qualcosa? Non è che prima o poi ci scappa “qualcosa di più”? No, dico io. Ovvero, forse, a ben teorizzare, potrebbe anche capitare ma non avrebbe nessuno strascico, neanche negativo, come quando prendi un granchio e poi però diventa una tragedia. Sì, è tutto questione di equilibri. Il caso (ci crediamo che esista?) vuole che immancabilmente si presentino episodi che ti fanno tornare al livello di amici, dopo attimi in cui la consonanza è tale che … vabbè.

Un attimo: non sfiori a nessuno il pensiero che si tratti di una sottospecie di attrazione, o di una razionalizzazione di una frustrazione. Niente di tutto ciò, ma una categoria a parte, che in un mondo di “io Tarzan, tu Jane” prevede la terza via: siamo Tarzan e Jane ma sono i nostri cuori a parlare, e niente legge della jungla. Qualcuna ha il “trombamico” (non serve spiegare l’etimologia del termine), che sarebbe pensato per momenti gaudenti e invece si ritorce in poco soddisfacente ginnastica, costellata da elucubrazioni che durano a multipli di 10 rispetto la prima parte. Niente a che vedere con l’amico del cuore, con il quale si toccano vette di tenerezza e di profondità che non devono far ingelosire i rispettivi partner. In più, gli incontri/scontri danno adito a quei pochi momenti di confronto non interessato tra i due universi che tanto stentano ad incontrarsi davvero. Certo, dopo una serata con l’amico del cuore, se siete ancora single, pensate con rammarico: accidenti, non mi potevo innamorare di questo?
No, che non potevi! È tutta un’altra cosa!

venerdì, luglio 16, 2010

Alba con Brunello

Ore 4.45. Un caldo ininterrotto, denso, nemmeno mitigato dalle ore della notte, mi spinge giù dal letto dopo poche ore di sonno disturbato. Poco male, la mattina è bellissima, quasi fresca, direi. Stavolta è stato proprio il caldo, e non la luce che entra dai lucernari spalancati, a svegliarmi. E poi c’è un silenzio meraviglioso, anzi non è proprio silenzio, ci sono gli uccellini superattivi, protagonisti indaffarati di queste ore che il più delle volte, il più della gente si perde. In inverno è desolante, a quest’ora è buio, freddo, si fatica a mettersi in moto. In estate, il contrario. E infatti mi attivo subito: acqua ai fiori (la vicina del piano di sotto, che ha orari imprevedibili, a quest’ora di certo non sbucherà da sotto i miei vasi, facendo una polemica per ogni goccia che malauguratamente potrebbe cadere annaffiando).

C’è luce piena, ma il sole non è ancora sbucato dalle case. Dopo i fiori, un caffè, più per il piacere che dà il diffondersi del suo profumo per la casa, nel silenzio, che per il bisogno di una carica ad inizio giornata. Questa è iniziata piano piano, dolcemente, indolore. Liscia. Mentre aspetto il caffè, decido per un momento di vero ozio. Mi sento in vacanza. Perché si deve andare in un hotel chissadove per prendere il caffè stando sdraiati sul divano, e rimandando ogni altra cosa? Lo faccio ora, subito.

E sul divano giace abbandonata una rivista. Ho già visto i titoli, mi prefiggo di studiarne le pubblicità, gli argomenti. Qualcuno direbbe che sto quasi (quasi!) lavorando. Mi colpisce la presenza di un’intervista, che non ricordavo fosse lì. Ho rimandato il momento di leggerla perché prima si sfoglia, la rivista, per vederla nel complesso, e solo dopo si torna a scegliere qualcosa che richieda un po’ di attenzione. Ora tocca a lei.

Intervista a Mario Brunello. Un po’ inflazionato, di questi tempi. Però interessante, forse perchè strano, come personaggio. Me lo immagino schivo, introverso, da bravo montanaro (ovvero amante della montagna). Parlerà più attraverso il violoncello che a parole? Non lo so, sono illazioni. Il titolo parla di silenzio, e di Suite per violoncello. Non si deve nemmeno dire che sono le Suite di Bach. Non è scritto da nessuna parte. Forse nella terza pagina, tra una domanda e una risposta. Mmmm, le suite per violoncello. So già che le amo, un suono che ti gira tutto attorno e che ti entra dentro, dalla pelle. Al violoncello riesco persino a perdonare di essere legato ad un momento che è stato magico e che ora detesto. Quel timbro è più forte di ogni sgradevole connessione razionale. Che sollievo!

Dunque l’intervista passa un po’ di palo in frasca, tocca argomenti che potrebbero sembrare leziosità, manie da addetti ai lavori, quelli noiosi che si perdono per ore a parlare dell’accordatura, del significato di una tonalità, del vibrato sì-vibrato no, e cose così. Cose che noi profani bolliamo come manie assurde, onanismi del tecnico innamorato di uno strumento che, come dice la parola, dovrebbe servire a qualcosa, non essere il fine ultimo dell’attenzione di una persona. Invece, complice un intervistatore capace e decisamente intelligente (e che scrive proprio bene!), si toccano anche questi argomenti, come dettagli che da una parte assumono un significato, dall’altra non catalizzano tutta l’attenzione. Anche il particolare tecnico diventa un modo per trasmettere un po’ di sé attraverso l’esecuzione musicale che, per questo interprete più che per altri, è sempre un condividere qualcosa con chi ascolta. Quando vuole stare solo, con il suo violoncello, lo fa, in un dialogo a tre, con il compositore. Diversamente, si mischia al pubblico, ora suonando in alta montagna, ora nel capannone senza neanche un palco al centro.

A me dà questa impressione. Questa aspettativa, perché non l’ho ancora sentito suonare. Per pigrizia, fatalmente non ho voluto rincorrere il personaggio, l’evento. Fino a che mi sono imbattuta nell’intervista, stamattina prima dell’alba. Un “pezzo” che poteva sembrare noioso, celebrativo (4 pagine, un trattamento da vero divo), vezzoso nella ricerca dell’estremo: intervistare un musicista che parla di silenzi, sembra proprio una posa. E invece no. Forse perché è tutto molto autentico, o solo sembra tale, bravura di chi scrive? Non credo. Preferisco rimanere nella sensazione di autenticità che mi lascia, assieme al retrogusto del caffè, la fine di questa intervista.

E intanto il sole è sbucato proprio dalla finestra che ho di fronte, mi colpisce gli occhi e mi costringe a cambiare sedia, per continuare a scrivere. Un’alba con Brunello, a casa mia. Certo, quelle sulle Dolomiti devono essere tutt’altra cosa, ma questa è stata tutta mia. I rumori della strada sono aumentati, assieme ai gradi della temperatura. Anche a me oggi aspettano delle interviste, decisamente prosaiche, però. Va bene così. Andiamo a incominciare!

martedì, luglio 06, 2010

Radical-chic

Contro mia voglia, sono finita per essere una single radical chic. La definizione non è arrivata tutto d’un colpo, ma attaccando i vari termini, uno alla volta, a quello che nella realtà virtuale (e nelle indagini di mercato) si chiamerebbe il mio “profilo”. Termine buono anche per i criminali, a dire il vero, ma per stavolta soprassediamo.
Dunque single. Grazie a dio ci siamo evoluti e ormai “zitella” è un termine antico, usato solo a Venezia, somiglia a “pulzella”. Se penso che la legge ecclesiastica dice che la perpetua, per essere donna fuori dalle tentazioni, deve avere 40 anni… ma siamo proprio sicuri che i “reverendi” abbiano mai, anche solo per un attimo, restare lontani dalle tentazioni? A me non la racconta più nessuno. Che vengano stigmatizzate, le signorine tentazioni, neanche un dubbio. Così sono pure gratis, alla fine dei conti. E se qualcuna presenta il conto… orrore, la corruttrice! Ecco, il mondo non si è evoluto neanche di un millimetro, con buona pace di karma e company. Siamo ancora all’età della pietra.

Ma non era questo l’argomento del post.
Veniamo a radical-chic. Radical indica un certo coraggio, un’ostinazione, in qualche modo, una tendenza all’estremo, al totale. Potrebbe anche avere una connotazione positiva. “Chic” è un destino, che dire! Che colpa ne ho, se mi disegnano così? Gliel’hanno dato un premio a quello che ha cucito addosso a Jessica Rabbit questo mito di frase? Spero proprio di sì, diversamente sarebbe un’altra ingiustizia cosmica.

Dunque, contro mia voglia mi affaccio al mondo targata “radical chic” e pure “single”, se a qualcuno importa.
E cosa fa una single radical chic? Il pane.
Il pane in casa, con le mani, senza la macchinetta che neanche vedi cosa ci butti dentro, e poi, voilà! Esce il cubetto di pane perfetto.
No, il mio pane ha richiesto un anno di tirocinio, la ricerca di un maestro che, come dicono alcuni illuminati, arriva da solo a te, quando ti pare di non stare cercando nulla. Il mio maestro di pane, che credo sia inconsapevole di esserlo, è un giovinotto nerboruto e alto due metri, che fa sport estremi e parla prevalentemente in un dialetto stretto stretto che non si capisce troppo bene.
Mani grandi e grande cuore. Mi ha spiegato quei dettagli essenziali per fare il pane in un modo così semplice che a me è sembrato poetico.

L’acqua deve essere “bella”. Non fredda, e neanche tiepida, ma piacevolmente calda (e quindi in rapporto anche alla temperatura dell’aria. In inverno si preferisce un’acqua più calda che in estate): bella, insomma. Se piace a te che fai il pane, piacerà anche a lui (il pane).
Poi si deve lavorare con le mani, con generosità, “perdendosi via”. Ed è vero, impastare è un po’ un mantra, un movimento ripetitivo che ti porta a non pensare, ad astrarti nella piacevolezza tattile dell’accarezzare la pasta morbida. E come una carezza, piace a chi la fa e a chi la riceve. La pasta incorpora aria e ti ringrazia lievitando meravigliosamente.

Dunque ormai ho “le mani in pasta”, fuor di metafora, e mieto successi su successi con i miei pani. Ma che c’entra con la radical-chic? C’entra e come! Perché una sera, invitata da un’amica ad una serata “decisamente radical-chic”, come mi avvisava l’amica per evitare che potessi sentirmi un pesce fuor d’acqua (mica tutti sanno che io pure sono della stessa razza… o forse non lo sono proprio). Non avendo di che omaggiare il banchetto estivo che si sarebbe allestito, ho pensato di partecipare con il pane fatto la sera prima. E per farmi perdonare, ho aggiunto anche una bottiglia di rosso.
Sottovalutando la mia pensata, mica ho fatto l’ingresso trionfale con il prezioso bene. No, il mio pane è entrato di soppiatto, in forma anonima, io intimorita da uno sfoggio di pane in cassetta e grissini accanto agli affettati.
Allora, come un bombarolo, mi sono messa in un cantuccio a spiare, non vista, l’effetto che sortiva l’arrivo del pane “rustego”. Ah aha, i “veri” radical-chic, che hanno sane radici contadine, si leccavano i baffi, accaparrandosi i pochi pezzi disponibili. Passando da dietro, con indifferenza, ho persino sentito qualcuno, sfoggiando una sapienza infinita da vero intenditore, affermare con certezza matematica: questo è fatto con il forno a legna!

Spiacente, viene dal mio proletarissimo fornetto elettrico della cucina Ikea, ma è fatto con le mani e con gli insegnamenti del cuore (del mio maestro).

lunedì, maggio 10, 2010

Romance - fiori e musica per i ranocchi

L’umore di una donna è come un mazzo di fiori di campo. È bello solo in virtù della varietà, di colori e di forme. Ogni suo punto porta ad immaginare come potrà apparire guardandolo da uno scorcio diverso. Ed è sempre imprevedibile, nuovo, anche a costo di deludere. Niente a che vedere con un regolare bouquet, magari di rose coltivate in serra (un fiore quadrato… mi sembra) per essere tutte uguali e passare un controllo qualità che fa invidia ai transistor.
Così, dopo qualche puntatina verso l’arguzia, dopo battutacce un po’ da scaricatore di porto (che non mancano mai nei pensieri e nelle chiacchiere innocue tra amiche), mi spunta un pensiero dolce. Sdolcinato, direi. Lo dedico a tutti i ranocchi.

Che strano, il pensiero sdolcinato fa capolino qua e là, magari mentre ascolto un pianoforte suonare, poi si assopisce e ritorna nel bel mezzo di una jam session di sassofoni e batteria. Travolgente, rumorosa, e per nulla cullante. E invece, il pensiero arriva. C’era già. Ed è meravigliosamente banale, come banale è ogni amore, quando è talmente vero da non tollerare aggettivi.

Viviamo in mezzo ad una selva di persone che cercano l’altra metà, e più passa il tempo più cercano affannosamente, più scelgono con il metodo di “prova ed errore”, secondo la teoria dei grandi numeri, oppure si convincono (orologio alla mano) di aver trovato la categoria giusta e dentro lì pure la persona che “si adatta” ai propri desideri, come ad una lista della spesa. Desideri che si fanno via via più concreti, misurabili, prosaici, tristemente standard.

Invece, se si ha la buona sorte di fare L’Incontro (come romanticamente si dice), se la tua mezza mela esiste e prima o poi ti casca di fianco (guai a chi adesso si mette a fare il calcolo della probabilità che questo accada, perché mi rovina il momento romantico!), la sensazione che ti invade è del tempo che si ferma. Non conta più quanto hai aspettato, quanto hai sbagliato e sofferto, quanto le ferite siano ancora lì belle fresche, e quanto assurda sia la persona che ti ispira tutto questo. Tutto sparisce, come quando la vista è rapita, sperdendosi in “quegli” occhi, tanto che l’udito si attutisce e suoni e rumori diventano indifferenti. È una sorta di ora zero. Un inizio, come un big bang o come il rigagnolo che diventerà un fiume. Non fa differenza. Hai aspettato un anno, dieci? Non importa. Ora ci sei. È forse quel “qui ed ora” che per noi è tanto difficile sperimentare? Forse sì. Non sei più né bello né brutto, né troppo (giovane, vecchio, alto, basso, ricco, povero, sfigato o alla moda) o troppo poco … semplicemente sei; e vivi appieno il tuo essere. Lo so, i saggi questo lo fanno da soli, senza appigli esteriori. Ma qui stiamo parlando dell’opposto della saggezza. Stiamo parlando dell’innamorarsi, che non è nemmeno l’amore, ma anzi è una fettina infinitesimale dell’esperienza. (Beh… dipende da che punto lo guardi. Infinitesimale!).

Il pensiero sdolcinato termina qui, e mi lascia in attesa di riviverlo nella vita reale, con il sapore della gratitudine per tutto quello che mi ha portato a formularlo. Non so neanche io cos’è: un incontro sul quale ho fantasticato (prima di infrangermi al suolo della realtà), una musica che tocca il cuore o un’altra che scuote le corde più gravi dell’essere. O tutto questo insieme e anche altro, di cui non sono consapevole.
Credevo fosse una mia fantasia, forse mi piccavo dell’invenzione, e invece me l’ha confermato un’amica, proprio poco fa. Lei, dopo molto tempo, ha inaspettatamente trovato l’amore. Forse si dovrebbe dire “riconosciuto” nelle sembianze improbabili di un individuo che, se si dovesse ficcare dentro una categoria, non farebbe voglia neanche nel deserto. Un ranocchio che si è trasformato da sé, giusto in tempo per ricevere il bacio della sua principessa. E a noi non deve riguardare, se non per affacciarci ad un angolo di felicità, che un po’ ci appartiene.

martedì, maggio 04, 2010

L'Intimorito

Se cantate musica del ‘500, se leggete sonetti di quell’epoca, potrebbero esservi familiari titoli come “L’umorista” o “L’invaghito”, e testi come “Oh che diletto mi riempi il petto” oppure “Maledetto sia l’aspetto…”.
Piccole perle che fanno invidia in un mondo di mezze misure, di bon ton, di equilibri sempre intatti. Invece quanto belli sono i barocchi improperi! Mi hai pestato un piede? Grido “Ahi ahi ahi” con tutto il fiato che ho, e ti mando pure dove devi andare, distratto e somaro che non sei altro! Osi non apprezzare i miei favori? Ti mando direttamente al diavolo, non senza prima una minaccia di avvertimento.
Insomma, espressioni a tinte forti, quelle che servono almeno per un attimo, perché sono la sola verità, che nasce ed esce direttamente dalla pancia.
Poi, solo dopo, possiamo stemperare i toni, comprendere, prendere le distanze… insomma, farcene una ragione e continuare a sorridere, dissimulando indifferenza e una certa signorilità.
Riprendendo questo antico costume, arriviamo ad una nuova categoria. Dopo l’Invaghito, ultimamente “una mia amica” (si dice sempre così, per stare sul vago e in modo che non si capisca che capita pure a me, o a qualcuno che potrebbe leggermi) ha individuato la tipologia dell’Intimorito. Leggi alla voce: “ha i suoi buoni motivi, chissà che madre ha avuto, sarà stato scottato (solo lui!), le donne forti lo spaventano, forse non immagina che io abbia una simpatia per lui….”.
E chi più ne ha più ne metta (donne, fatevi avanti, che di scuse da inventare e pure regalare agli intimoriti ne avrete una più del diavolo). E tutte lì a pensare come fare a fargli passare le paure: abbasso le pretese, mi faccio le codine così sembro stupida, elimino i tacchi e giro “in sata” per togliermi 5 cm di altezza in modo che lui (nano) possa comunque svettare, e via così.
Arriva però un giorno in cui non se ne può più, persino la mia amica. Il giorno in cui qualcuno ti sibila in un orecchio che qualunque sia il problema, se si vuole si supera (compresa la mamma invadente, la ex onnipresente e la depressione sempre in agguato – e tralasciamo di considerare il potere seduttivo di un soggetto così…) . E’ il giorno in cui la mia amica esclama: “Non sarà un altro Intimorito!”, decide di non curarsi di lui, guarda (non troppo, se no si commuove) e passa. Passa oltre, sui suoi tacchi 7 (almeno), ancheggiando il giusto, e va verso un nuovo incontro, senza timori.
E speriamo anche senza intimoriti.